Dal Confucio un signor viaggio in Cina

volaQualche settimana fa l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano mi ha segnalato una bellissima iniziativa che, ad averci i denari, abbraccerei senza esitazione: si tratta di un viaggio in Cina alla scoperta delle varie cucine regionali e che come tappe di viaggio contempla addirittura quattro lezioni di cucina in diversi ristoranti. E come se non bastasse, oltre a essere un viaggio organizzato “chiavi in mano” dedicato al cibo, in cui si imparano tante belle cose della cultura gastronomica cinese, si è accompagnati da una sinologa (e buona forchetta) d’eccezione, ossia la Dottoressa Marta Valentini, che spesso si incontra agli eventi del Confucio a volte a parlar di calligrafia, altre di ravioli cinesi.
Non so la capienza delle vostre tasche, e si fa presto a liquidare tutto con “non ho i soldi, non ci vado”, ma la verità è che il programma di questo viaggio vale per me come un inception, un tarlo che ora ho nella testa e che prima o poi mi porterà a fare qualcosa.
Se potete, fateci ben più di un pensiero e comunque seguite il sito dell’Istituto Confucio di Milano, perché il cibo è un ottimo modo per avvicinarsi alla cultura cinese e l’Istituto, come istituzione ufficiale, lo sa bene!

Scaricate qui il programma del viaggio

Dorayaki: i dolci gong giapponesi

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Parlo di dorayaki perché il 10 dicembre arriva nelle sale cinematografiche italiane il film “Le ricette della Signora Toku”, dove si parla anche di questi dolcetti: per guardare il trailer del film visitate la pagina Facebook del film.

I dorayaki ricordano la forma del gong, ed è per questo che si chiamano così.

I dorayaki ricordano la forma del gong, ed è per questo che si chiamano così.

Il bibbione Japanese Cooking di Shizuo Tsuji spiega che i dorayaki sono i dolcetti giapponesi più popolari, e che “dora” significa letteralmente “gong“. E tra due gong-dora, ossia due pancake, è racchiuso un ripieno di pasta di fagioli azuki in pezzi. I dorayaki vengono spesso preparati in strada su una serie di stampi che li rendono perfettamente circolari e ben dorati (a farli in casa, come vedremo, è un po’ più difficile, ma il risultato è ottimo lo stesso).
La ricetta del Maestro Tsuji è molto simile a quella che vi spiego in questo post e nel video: come ingredienti per i pancake usa uova, farina, lievito per dolci, zucchero e mizuame, ossia lo sciroppo di mais. Per il ripieno, invece, crea una pasta grossolana di fagioli azuki. Io ho scelto di ridurla a purea con il frullatore, ma se volete potete fare i fagioli a pezzettoni schiacciandoli pazientemente con un cucchiaio di legno fino ad ottenere la consistenza preferita. L’importante è che comunque i fagioli siano ben scolati e che la pasta risulti bella densa.

La ricetta che vi do è a volumi: se utilizzate come unità di misura il dosatore tazza standard (che vi consiglio di tenere in casa), otterrete 5-6 dorayaki completi dal diametro di 8 centimetri.

**********INGREDIENTI***********

La pastella dei dorayaki può essere impiegata anche per fare i pancake

La pastella dei dorayaki può essere impiegata anche per fare i pancake all’americana.

Per i pancake
3 uova
1 tazza di farina
2/3 di una tazza di zucchero
2 cucchiai di acqua
Mezzo cucchiaio di lievito per dolci

Per il ripieno
1 tazza di fagioli azuki al naturale (si trovano facilmente nei negozi bio e in quelli etnici)
8 tazze di acqua (4+4)
1/3 di tazza di zucchero

Il procedimento della ricetta è spiegata nel video, qui vi lascio qualche annotazione: iniziate col preparare la salsa del ripieno, perché dovrà stare sul fornello più di un’ora e poi si dovrà raffreddare in frigo. La pastella dei pancake è facilissima da preparare, non crea problemi particolari di grumi, però tenete a portta di mano una frusta per mescolare bene gli ingredienti. La cosa più complicata è mantenere una forma regolare per ciascun pancake: io mi sono aiutata con un coppapasta rotondo da 8 centimetri di diametro, però non è che aiuti ‘sto gran che, perché va rimosso subito (altrimenti la pastella si attacca ai bordi) e conseguentemente la pastella si allarga un po’. Non preoccupatevi se il pancake si scurisce, però cercate di non bruciarlo. Nel video e nelle foto vedete che la superficie è leggermente marroncina: questo sicuramente non rende i miei dorayaki dei “dolci gong dorati” ma il gusto non ne ha risentito perché non erano per nulla bruciati.
Infine, quando ho composto il “panino”, ho ritagliato i bordi con il solito coppapasta, giusto per farli ben tondi.
Il risultato è stato apprezzato anche da Claudio che, oltre a essere un golosastro di dolci, mi ha anche dato una mano preziosa per creare le inquadrature. Grazie :*

Rigorosamente casalinghi, provate anche voi a fare i dorayaki, non è difficile!

Rigorosamente imperfetti e casalinghi! Provate anche voi a fare i dorayaki, non è difficile!

 

Expo 2015: esiste una cucina cinese in salsa islamica

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taste1La scorsa settimana sono stata invitata a “Taste of Silk Road”, un evento di Expo 2015 organizzato dal Padiglione Cina e dedicato alla Via della Seta, l’antica strada commerciale che, nelle varie epoche, è arrivata a toccare cinquantasette paesi per terra e per mare. La natura dell’evento è stata più di rappresentanza che culturale, più mondana che gastronomica, poco “taste”, tanti “toast” e pacche sulle spalle tra cine$i e rappre$entanti del Qatar. Il motivo di tutto que$to, re$o e$plicito in conferenza $tampa, ve lo racconto tra poche righe: ne approfitto comunque per raccontarvi quel poco che sono riuscita a cogliere di una terra poco conosciuta, la regione autonoma cinese del Xinjiang** abitata dalla minoranza islamica uigura e dove la cucina rispecchia la tradizione musulmana.

 

Quel poco che ho assaggiato della cucina di Yershari era squisito:  mi toccherà andare a Shanghai per farmi un pasto completo, oppure infiltrarmi nei padiglioni islamici.

Quel poco che ho assaggiato della cucina di Yershari era squisito: mi toccherà andare a Shanghai per farmi un pasto completo oppure infiltrarmi nei padiglioni islamici.

Andiamo subito al dunque gastronomico, perché l’evento è stato supportato da Yershari, una catena di ristoranti di Shanghai specializzato nella cucina uigura del Xinjiang e che all’Expo cinese 2010 aveva la gestione del catering per i padiglioni islamici, e mira ad averla anche per l’Expo 2017 (Kazakistan) e Expo 2020 (Dubai), dopo esser stata confermata per questo Expo milanese: il suo fondatore, Yang Jian, ha ricevuto durante la serata il premio “China Ethnic Enterprise Pioneer”.
Purtroppo Yershari non ha organizzato anche il catering della serata, che invece era del milanesissimo Peck.
In un tavolo imbandito a scopo espositivo è stato possibile assaggiare solo due specialità della cucina uigura: un ottimo riso a chicco lungo a base di spezie e uvetta (avrei detto indiano) e delle palline di pasta fritta ammollate in uno sciroppo denso e dolce (dubito fosse miele, ma le informazioni scarseggiavano). Sono comunque riuscita a fare una carrellata dove potete distinguere spaghetti, spiedini di agnello e costolette di montone glassate, couscous, frutta. Altre specialità della cucina sono i cosciotti di agnello grigliati, il pollo con chili, l’insalata di gamberi con pitaya (è un frutto, il dragon fruit, o frutto del drago, ha la scorza rossa e l’interno bianco con semini neri).


 

Costumi tipici uiguri indossati da modelle europee

Costumi tipici uiguri indossati da modelle europee

Il folklore uiguro è stato anche rappresentato da una sfilata di costumi tipici locali che ritengo siano stati un po’ adattati e reinterpretati perlomeno nelle calzature se non in alcuni tagli che mi sono sembrati un po’ modaioli. Qui li potete vedere indossati da… delle sventolone europee 😀 Ho anche caricato su YouTube un filmato di sei minuti abbondanti “così come l’ho girato” con quasi tutta la sfilata: un fuoriprogramma su RuMi Mama che non c’entra proprio nulla col cibo ma spero faccia piacere a chi ama la moda (un saluto ai miei amici collezionisti di bambole, credo che possa piacervi!).

 

 

**Del Xinjiang attuale si può parlare sotto vari aspetti: politici, geografici, culturali, storici, religiosi, ambientali, folcloristici e anche gastronomici. Il Xinjang (letteralmente Nuova Frontiera) è una Regione Autonoma che si trova nel nord-ovest della Repubblica Popolare cinese e che confina con numerosi stati dell’Asia Centrale: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan, ma anche Russia a Nord e Mongolia a Est. Questa posizione sulla mappa dovrebbe già suscitare immagini molto diverse da quelle della skyline di Shanghai, dei palazzi istituzionali di Pechino, dei panda del Sichuan: il Xinjiang è una terra impervia, vi si trovano alte e altissime vette montuose, l’enorme deserto del Taklamakan (“Se ci entri, non esci più”), ma anche oasi e praterie. La Via della Seta passava (anche) di qua.
Chi vive in questa terra in gran parte selvaggia? I cinesi, direte voi… ma tenete presente che in Cina ci sono 56 gruppi etnici (anche se quello maggioritario, l’Han, è rappresentato dal 92% della popolazione). In particolare nel Xingjiang si concentra parte del gruppo etnico degli UIGURI, che rappresenta il 45% della popolazione di questa Regione Autonoma: in titale gli uiguri in Cina sono circa 9 milioni divisi tra il Xinjiang e l’Hunnan (dato Wikipedia). Una caratteristica degli uiguri è quella di essere di religione islamica in uno stato ateo governato da un partito che al massimo tollera, marcandola comunque stretta, qualsiasi confessione religiosa presente nel proprio territorio. E a dirla tutta, non è che gli uiguri si sentano poi così tanto cinesi: come in Tibet, esiste un movimento indipendentista e questo crea non pochi problemi al governo da un lato e solleva le attenzioni delle organizzazioni che difendono i diritti umani dall’altro (Amnesty in primo luogo).

RuMi Mama risponde: i migliori ristoranti giapponesi di Milano

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Mentre facevamo un viaggio della speranza lungo cinque ore, Michela mi ha posto una domanda a cui è assolutamente necessario che risponda tramite il blog, perché non è la prima volta che mi viene posta: “Io e il mio ragazzo amiamo tantissimo andare al ristorante giapponese: quali sono i migliori di Milano secondo RuMi Mama?“.

Cara Michela, innanzitutto complimenti per la scelta del fidanzato: l’amore può tutto, ma se si hanno gli stessi gusti a tavola è meglio. Nell’affidarvi al consiglio di RuMi Mama siate pronti ad assaggiare la cucina giapponese cotta e cruda, di carne e di pesce, di pasta e di zuppe.
La mia raccomandazione per chiunque è quella di non fossilizzarsi mai sul binomio sushi-sashimi, perché significa perdere l’occasione di assaggiare delle vere delizie che non hanno molto a che spartire con la cucina italiana. Detto altrimenti: se nel menu di un ristorante giapponese leggete “sgombro alla griglia”, non immaginatevi il classico pesce alla griglia “all’italiana”, tipico delle grigliate al mare a Ferragosto, con la carne molliccia, l’occhio esploso, du’ fettine di limone e il mazzetto di odori ficcato nella pancia. Oltre a esser dei maestri di pesce crudo, i giapponesi sono cintura nera di griglia. Per non parlar delle zuppe, dei piatti a base d’uovo, dei fritti e del curry giapponese.

I consigli che seguono sono marchetta-free, limitati alla mia esperienza personale di cliente pagante e non basate sul sentito dire (per questo in elenco ci sono dei grandi assenti molto presenti nel bla-bla-bla godereccio milanese).
Sono consigli variegati, per tutte le tasche e vanno dalla cucina giapponese rigorosa al fusion, passando per i piatti più pop (quelli cucinati) ma comunque eseguiti sempre secondo le ricette tradizionali.

Un menu del Sumire, fotografato un paio di anni fa (la mia prima volta)

Un menu del Sumire, fotografato un paio di anni fa (la mia prima volta)

Sumire – Via Varese, 1 20121 Milano
Piccolo locale in zona Moscova, gestione giapponese. Qui ci sono stata sempre e solo a pranzo con amici che lavorano in zona: certamente ci si può mangiare sushi e sashimi ma il punto di forza, a mezzogiorno, sono i menu completi con pollo, maiale, manzo (principalmente fritti) e i menu di curry giapponese. Per quanto riguarda i fritti, lasciatevi andare senza timori perché sono preparati con cura e asciutti. Al Sumire preparano un buon tonkatsu: di solito tradotto come “cotoletta di maiale panata”, non è come la cotoletta alla milanese ed è un’esperienza da fare, ma qualsiasi preparazione è davvero un viaggio nei sapori e dei profumi del “cotto giapponese”. Spezzo una lancia a favore del curry alla giapponese che, essendo preparato con spezie, carni e verdure nonché servito con il riso, è saporito il giusto. Ogni giorno viene inoltre proposto un “menu del giorno” (per provarlo meglio arrivare presto, perché sono contati) <– non più *_*. I menu sono serviti in un vassoio con dei piatti molto belli e i prezzi sono ragionevoli (sui 17-18 euro bevande incluse)
Non ho ancora avuto modo di mangiarci la sera.
Prenotate sempre, non cercate di fare improvvisate altrimenti vi rimbalzano.

Tomoyoshi Endo – Via Vittor Pisani, 13 – Milano
Storico ristorante giapponese di Milano, qualsiasi cosa ordiniate siete sicuri che è preparato secondo i canoni della vera cucina nipponica. Potete scegliere se mangiare al tavolo o al banco. Partiamo dal tavolo: a pranzo ci sono i classici menu del giorno (ci sono stata solo una volta, tutto nella norma), la sera si ordina alla carta. Non fatevi intimidire dal menu che in parte propone in giapponese le specialità del giorno e dall’altra offre dei piatti cotti che all’apparenza sono appiattiti solo da una semplice traduzione in italiano. Per quanto riguarda le specialità del giorno chiedete al personale di servizio, perché vi sono inclusi piatti a base di ingredienti di stagione (verdure, pesce) cucinati alla giapponese. Io qui ho mangiato piatti indimenticabili che non erano in lista (la lingua di vitello, per esempio) e ho avuto modo di verificare che la mia ricetta del buta no kakuni è fedelissima nel sapore e nella consistenza.
Se volete lanciarvi su sushi e sashimi potete scegliere due vie: affidarvi alla rassicurante carta oppure chiedere di andare al banco e dire al maestro sushi la parola magica “omakase“, ossia “fai tu”. Non economico, per nulla fighetto, una pietra miliare per chi vuole il Giappone vero.

Osaka – Corso Garibaldi, 68 – Milano
Sono anni che non torno all’Osaka, ma come l’Endo è un ristorante giapponese originale. Ordinate a occhi chiusi qualsiasi cosa vi attiri, però leggendo ora il menu che è stato pubblicato online, mi commuovo a vedere la presenza del battera. Si tratta di una preparazione di sushi tipica di Osaka a base di sgombro marinato e dalla caratteristica forma a parallelepipedo. Quasi quasi ci torno a breve per mangiarlo assieme a tante altre cose.

Poporoya – Via Bartolomeo Eustachi, 17 – Milano
Il primo vero sushi bar di Milano non ha bisogno di presentazioni. C’è coda fuori? Fatela. Il locale è piccolo e stretto? Non importa. Bisogna mangiare e poi alzarsi subito? E chi siete voi, per negare ad altre persone il piacere di mangiare le stesse delizie che avete appena finito? La specialità del piccolo locale dal cuore grande grande è il cirashi, ossia una scodellona di riso con sopra una generosa montagna di pesce crudo misto. Prezzi pop per un sushi da manuale, commovente, originale.

L’Oasi Giapponese – Via Montecuccoli 8 – Milano
Alla fermata della rossa di Primaticcio (ramo Bisceglie) c’è questo locale che definisco “trattoria giapponese”. Anche qui si scatenano coi cotti, è uno dei pochi locali milanesi che ha nel menu l’okonomiyaki (nutrientissimo frittatone con dentro di tutto) e i takoyaki (polpette di polpo). Si può mangiare allo sfinimento senza spendere poi così tanti soldi, però prenotate perché è sempre pieno, ne uscirete soddisfatti.

Il katsuodon del Shokuji Tei

Il katsuodon del Shokuji Tei

Shokuji Tei – Piazzale Giovanni Delle Bande Nere, 9 – Milano
Alla faccia di chi spocchiosamente dice che “dopo la biforcazione di Pagano non è più Milano“, un’altra trattoria giapponese oltre le “colonne d’Ercole della M1”, dai sapori originali e casalinghi, “amica” di Poporoya. Questo locale è stato per molto tempo il mio rifugio il sabato a pranzo. Piccolo, spartanissimo, appena entri senti l’odore di brodo tipico dei ristorantini giapponesi.  Qui si mangia dell’ottimo cirashi, il katsudon (ciotola con riso, cotoletta di maiale panata, il tonkasu e uovo), delle zuppe spettacolari. Andate sul sicuro anche con altri piatti cucinati (per esempio provate lo sgombro grigliato, ossia il saba no shioyaki, ma anche i calamari fritti). Nel locale c’è anche un piccolo angolo di supermarket dove trovate gli ingredienti di base, il riso, salse (c’è anche la famosa maionese giapponese) un frigo con dolcetti, pesce e preparazioni surgelate. A chi mi domanda perché “dopo Pagano” esistano il Shokuji Tei e L’Oasi Giapponese rispondo perché in zona c’è la scuola giapponese (asilo, elementari, non ricordo se medie…) e quindi è probabile che ci abitino molte famiglie giapponesi in Italia per lavoro.

Izakaya Sampei – Corso Vittorio Emanuele, 26/28, ingresso in Largo Corsia dei Servi – Milano
In Giappone l’izakaya è un locale tipo osteria dove si fa quello che noi definiremmo un aperitivo beve e si mangiano piccole portate.
L’Izakaya Sampei è un locale molto bello che strizza l’occhio sia alla fighetteria sia all’otaku (c’è davvero il pescatore Sampei disegnato su una parete). Anche qui si mangiano l’okonomiyaki (davvero buono) e i takoyaki, un’ottima selezione di fritture e tanti piatti alla griglia (c’è la piastra, il teppan, a vista dove vengono fatte le cotture alla griglia). Servono il wasabi fresco. Non una cucina giapponese rigorosissima su tutta la linea (ci sono alcune preparazioni col burro, in Giappone non è un ingrediente usato) ma davvero molto molto buona. A un certo punto hanno deciso di inserire i menu degustazione, ed è stata una scelta azzeccata, perché così è possibile fare un bel viaggio in questo mondo di assaggini. Cercate di mangiare all’aperto in terrazza, si sta molto bene.

Iyo – Via Piero della Francesca, 74 – Milano
Il primo ristorante giapponese a ricevere la stella Michelin in Italia. Ne ho parlato anche in questo post, perché servono il wasabi fresco. Il menu offre uniche specialità fusion dello chef (sono preparazioni da stella, meritano davvero, come il Toro no niwa – ventresca di tonno con terrina di foie-gras d’oca al mirin e sansho… leteralmente si scioglie in bocca), affiancate a tradizionali sushi e sashimi, preparati a regola d’arte con materie prime freschissime. La cucina, lo ripeto, è fusion, ma se volete del sushi e sashimi da urlo qui andate sul sicuro. Costa, ma sono soldi ben spesi.

Wicky’s – Corso Italia, 6 – Milano
Tengo per ultimo Wicky’s perché merita un discorso a parte, ci ho lasciato il cuore: in questo ristorante la cucina orientale si sposa alla perfezione con l’Occidente. Si tratta di una cucina fusion esclusiva: non la si trova altrove perché nasce dalla creatività e dalla personalità dello chef Wicky Priyan. Se Iyo è colore, Wicky’s è personalità e identità. Non so neanche quale piatto consigliarvi perché ho fatto il menu degustazione (con sushi, carpacci, ma anche piatti caldi): sono rimasta letteralmente a bocca aperta e (non la sto facendo più grossa di quel che è, lo giuro) per tre mesi non ho più avuto il coraggio di mangiare sushi e sashimi altrove, neppure in un ristorante giapponese vero. Trattandosi di cucina fusion comandano l’abbinamento di sapori, di consistenze, di ingredienti che arrivano da luoghi diversi e che si sono incontrati nelle mani di Wicky’s: qui la cucina giapponese si trasforma e raggiunge l’ultimo stadio di Super Sayan. Quando prenotate vi chiedono se volete essere serviti al tavolo o al banco. Al banco non si ordina alla carta ma ci si affida allo chef: vengono servite specialità del giorno (leggo circa 16 portate). Al banco non ho ancora mangiato, ma voglio andarci, devo solo capire quando: poi, visto che ormai ho iniziato a recensire ristoranti, credo che vi farò sapere da queste pagine com’è andata 😀

La “non-recensione” dell’Iyo, dove servono il wasabi fresco

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Lo scorso weekend c’era una bella occasione da festeggiare, quindi sono andata a cena in dolce compagnia nel primo ristorante giapponese d’Italia che nel 2014 è stato insignito della stella Michelin: è l’Iyo di via Piero della Francesca a Milano.
Ogni tanto gli amici mi chiedono perché non recensisca i ristoranti in cui vado. Il motivo è che c’è chi lo fa da ben prima di me e soprattutto non trovo molto sensato scrivere post solo su ristoranti di Milano, città in cui vivo e dove già esiste un nutrito plotone di food blogger ben connessi e in grado di segnalare le tendenze con la puntualità caratteristica di chi lo fa per lavoro ed è quindi in contatto con gli uffici stampa.
Tuttavia ci sono dei locali dei quali vale la pena parlare non tanto per mettere la bandierina del “io ci sono stata”, ma perché fanno la differenza: questo è il primo, ma ce ne sono altri che meritano una menzione su RuMi Mama e dei quali SO che sarebbe stato meglio vi parlassi prima. Rimedierò.

L’Iyo la differenza la fa perché è il primo ristorante dove finalmente ho avuto l’occasione di assaporare pienamente il wasabi fresco. Uno dei post più di successo di questo blog è proprio quello dedicato al wasabi, dove spiego che quello che siamo abituati a mangiare col sushi è rafano colorato di verde, mentre il wasabi è una radice botanicamente simile ma dal gusto diverso. E se lo volete assaggiare, all’Iyo lo potete fare.

Per il vero wasabi non potevo non sfoderare lo smartphone a tavola e fare uno scatto :)

Per il vero wasabi non potevo non sfoderare lo smartphone a tavola e fare uno scatto 🙂 Non prima di averlo assaggiato, però!

Ed eccolo, in questa immagine, il “grumetto” di wasabi che accompagnava il delizioso piatto misto di gunkan (i bigné di sushi) che mi hanno proposto, assieme ad altri piatti, per assaporare le specialità di Iyo. Appena lo si mette in bocca si prova una sensazione davvero diversa da quella che sale subito al naso, tipica del comune rafano. Il vero wasabi è subito balsamico, rinfrescante e poi pungente ma non in modo intollerabile: insomma, un’esperienza da fare per sapere cosa significhi davvero WASABI.
Ho anche mangiato (ma non fotografato, chiamatemi pure “blogger riservata”) un’altra preparazione a base di wasabi: è il Zuke Maguro, ossia “tonno scottato e marinato nella salsa di soia con crema al wasabi”. In questo caso si trattava di un trito di wasabi dal sapore sempre pungente e balsamico da mettere sopra alle sottili fette di tonno scottato.

Il menu di Iyo, come la sua carta dei vini, è davvero ricco: ci potete trovare specialità fusion (le creazioni dello chef, sono queste quelle che ho preferito ordinare) e le tradizionali preparazioni di sushi giapponese, dagli uramaki al sashimi, passando per yaki soba e yaki udon. Le materie prime sono fenomenali, le preparazioni accurate e di livello veramente superiore. Se poi vi lasciate intimidire dai prezzi del menu e dalla stella Michelin vi rassicuro doppiamente: andateci. L’ambiente è accogliente e informale, per coppie e per famiglie, i coperti sono molti e c’è tanto andirivieni di gente. Il personale di servizio è molto disponibile, poco ingessato e pronto a consigliarvi, chiedete, chiedete quello che volete. Se davvero amate il cibo giapponese come sento dire da molti, andate tre volte di meno in un cino-giappo “da sbarco”, così vi salterà fuori il budget per mangiare da Iyo e unscirne soddisfatti dopo aver cenato ad alto livello: non è un ristorante dalla cucina giapponese rigorosa e didascalica, ma un fusion con una personalità molto asiatica e colorata. Se siete di Milano andateci.

La Fiera del Cibo Coreano a Milano

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IMG_20150626_115229Stamattina ho preso la metro e sono andata in centro perché nel cortile del Piccolo Teatro Grassi, proprio dietro a piazza Cordusio, c’era la Fiera del Cibo Coreano, un evento organizzato in occasione di Expo 2015 per far conoscere anche a noi occidentali la gastronomia e la cultura coreana: RuMi Mama poteva mancare? Certo che no, appena posso io corro!
Nel bel cortile del teatro, dove spesso vengono organizzati eventi, c’era una dozzina esatta di stand che proponevano snack alle alghe, ginseng, noodles, the e bibite. E per le tante persone che sono entrate nel cortile c’è stata la possibilità immergersi nella cultura coreana guardando lo spettacolo dei Morning of Owl, una  boy-band di ballerini acrobatici, ma anche mangiando gli gnocchi coreani e il gimbpap.

Guarda il reportage video di RuMi Mama!

Il Gimbpap non si legge come si trascrive e non è quel che sembra!

Non è sushi, è gimbpap coreano!

Non è sushi, è gimbpap coreano!

In effetti il 김밥, “gimbpap” si pronuncia all’incirca “KIMPA”, dove il suono “kim” significa “alga” e il suono “pa” significa “riso”. Se lo guardate sembra un maki giapponese, e l’aspetto è decisamente simile, nessuno vi condanna se li confondete! In realtà il gimbpap può contenere pesce, verdure, carne, cotti o crudi e, soprattutto, il riso al suo interno non è condito come quello per il sushi (con aceto di riso e zucchero), ma con il sale e il profumatissimo olio di sesamo. In pratica è un rotolo ricco e saporito, l’equivalente dei nostri panini!

 

 

Alghe, lo snack alternativo

A sinistra alghe dolci con mandorle e sesamo, a destra alghe al kimchi

A sinistra alghe dolci con mandorle e sesamo, a destra alghe al kimchi

Le alghe prima o poi diventeranno le nuove patatine fritte: in un paio di stand mi hanno spiegato che in Corea vengono mangiate sia come accompagnamento nei piatti sia come snack durante la giornata, per esempio da sgranocchiare mentre si beve la birra. Non consideratele quindi solo alla stregua dell’insalata, perché in realtà si presentano in vari modi e insaporite nei modi più disparati: ne ho assaggiate con sesamo e mandorle, al kimchi (piccantissime), al wasabi (dopo quelle al kimchi hanno avuto un effetto balsamico sulla mia gola XD) e persino preparate con l’olio d’oliva (lo importano dall’Europa perché ovviamente là in Corea non lo producono).

In un paio di stand mi hanno pure regalato le confezioni di alghe, a supporto di RuMi Mama… grazie Corea!

In un paio di stand mi hanno pure regalato le confezioni di alghe, a supporto di RuMi Mama… grazie Corea!

Raviollola #4: le basi per conoscere la cucina giapponese

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Questa è una delle bibbie sulla cucina giapponese.

Questa è una delle bibbie sulla cucina giapponese.

In molti testi dedicati alla cucina giapponese ho trovato riferimenti a “Japanese Cooking: a simple art” scritto da Tsuji Shizuo e pubblicato da Kodansha International nel 1980 (non trovo traccia di una versione italiana). Richard Hosking, autore del “Dictionary of japanese food” lo raccomanda nella propria bibliografia come “un libro straordinario, non solo per la gran varietà di ricette affidabili e fondamentali, ma anche per l’enorme quantità di informazioni utili e accurate riguardo gli ingredienti utilizzati nella cucina giapponese“.

L’autore Tsuji Shizuo, nato nel 1933 e morto nel 1993, è stato un laureato a Tokyo in letteratura francese, ha viaggiato e vissuto in Europa ed è stato fondatore della Ecole Technique Hotelier Tsuji di Osaka. In lui si sono fuse le abilità di cuoco, scrittore e imprenditore. In questo articolo pubblicato nel 1993 sull’Indipendent e scritto in occasione della sua morte, potete approfondire il profilo di questo giapponese definito nel lontano 1984 Chief Foodie of Japan.

Senza spingervi all’acquisto di questo tomo in inglese di più di 500 pagine (a questa cosa geek ci penso io) vi consiglio di andare su Google Libri, dove è possibile leggere l’anteprima di alcune pagine. Ho trovato spettacolari le tre pagine e mezza (da 248 in poi) che spiegano come scegliere, pulire e preparare il polpo per la cottura, ma gli spunti sono evidentemente molti non solo per cucinare, ma anche per capire meglio la tradizione gastronomica giapponese.

Era da tempo che ronzavo attorno al libro di Tsuji Shizuo e oggi l’ordinato, perché questo testo non può mancare nella mia (sempre più rifornita) biblioteca personale di cucina orientale.

La passione chiama e RuMi Mama risponde, sicura di non rimanere delusa 🙂

Tamagoyaki, la frittata giappa arrotolata

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Che dir, ci ho preso gusto coi filmatini in time lapse. Questa volta vi mostro la preparazione del tamagoyaki, la frittata arrotolata alla giapponese, e vi incoraggio a provare anche voi: seguite i miei consigli e, se qualcosa va storto, correggete la mira al secondo o terzo tentativo. Non è difficile e non correte neanche il rischio di sprecare materie prime troppo costose.

Dal mioa rchivio personale :) Tanti anni fa, al Shokuji Tei (piazza Bande Nere, Milano), mi servirono un cirashi con sopra il tamagoyaki tagliato e riposizionato a forma di cuore.

Dal mio archivio personale 🙂 Tanti anni fa, al Shokuji Tei (piazza Bande Nere, Milano), mi servirono un cirashi con sopra il tamagoyaki tagliato sottile e riposizionato a forma di cuore.

Qui in Italia il tamagoyaki viene preparato nei ristoranti giapponesi (in quelli veri e in quelli cino-giappo un po’ raffinati): ne potete trovare delle fettine sopra alla scodella di cirashi, oppure nel sushi misto, sopra a una polpetta di riso tenuto fermo da un nastro di alga nori. Può anche essere servito da solo, con dei germogli di soia, daikon tritato, verdurine… qualsiasi cosa. Si tratta di una pietanza informale, ha il sapore della frittata con… quel tocco giapponese in più che solo ingredienti come dashi e mirin riescono a dare.

 

 

 

Padella per tamagoyaki acquistata da Muji nel 2008. A un certo punto ha perso l'antiaderenza e son stati guai.

Padella per tamagoyaki acquistata da Muji nel 2008. A un certo punto ha perso l’antiaderenza e son stati guai.

È da tempo che mi cimento con risultati alterni in questa preparazione perché, tanti anni fa, da Muji ho trovato l’apposita padellina (non è altro che una normale padella a base rettangolare con i bordi alti). Con questo strumento ho avuto un rapporto molto conflittuale, ve ne parlo dopo nel capitolo dedicato all’antiaderenza…
So già che vi domanderete se il tamagoyaki si può fare in una padella tonda normale con i bordi inclinati: io direi proprio di NO. Potete magari usarla per fare qualche esperimento, ma se volete ottenere la tipica forma a parallelepipedo è meglio usare la padella apposta. Se volete fare un tamagoyaki IMMENSO DA 12-15 UOVA, potreste anche utilizzare una teglia da lasagna antiaderente, vedete voi come vi trovate a maneggiarla sulla fiamma senza il manico 😀 Intanto vado dritta al sodo con la ricetta che ho usato per il video.

***RICETTA TAMAGOYAKI***

3 uova
1 cucchiaio abbondante di mirin
(ci andrebbe anche 1 cucchiaino di sake ce l’avete, io non ce l’avevo, ho messo un po’ più di mirin e dashi)
Mezzo cucchiaino di zucchero
Un pizzichino di sale
1 cucchiaino abbondante di salsa di soia
70 cl di brodo dashi molto saporito
Olio di semi per ungere la padella


Come vedete si tratta di spargere un sottile strato di miscela sul fondo della padella e arrotolarlo su se stesso quando non è ancora cotto del tutto. Se la vostra è una buona padella e vi fidate della sua antiaderenza, potete evitare di ungere il fondo ogni volta che versate un nuovo strato di miscela: l’importante è che alziate un attimo il rotolo per farci scivolare il liquido sotto.

Grande come quella di Muji, la mia nuova padella per il tamagoyaki è antiaderente.

Grande come quella di Muji, la mia nuova padella per il tamagoyaki è antiaderente.

La prima parola d’ordine per realizzare un buon tamagoyaki è ANTIADERENZA
La padellina di Muji non aveva il fondo antiaderente e si attaccava tutto in ZERO SECONDI : trattandosi di una padella in ferro andrebbe trattata come le pentole di ghisa e i wok (la si cosparge con uno strato di grasso, la si sbatte in forno per fissarlo, la si usa e poi la si lava a mano senza rimuovere la patina, lasciandola lì a proteggere il fondo). Non amando molto questa procedura (lavo tutto in lavastoviglie, è una mania “di famiglia”) ho deciso di acquistare una nuova padella rettangolare con fondo antiaderente. Questo mi evita anche di ungere troppo la padella sia per il trattamento protettivo (in inglese lo chiamano “seasoning”) sia durante la preparazione.
[Ecco il link di affiliazione Amazon per la padellina che ho acquistato. Se la volete prendere anche voi, vi avviso che se fate clic su questo link RuMiMama riceve una piccola percentuale sulla vendita 🙂 Ibili 411218 Stufa per Tamagoyaki]

La seconda parola d’ordine per realizzare un buon tamagoyaki è LIQUIDITÀ
Non mi riferisco alla liquidità di denaro, si tratta di ingredienti poveri, ma di liquidità della miscela di uova, mirin e brodo dashi. Bisogna trovare il giusto rapporto tra le uova e gli altri liquidi, in modo da riuscire a versare strati sottili di miscela, in modo che la base della frittata a contatto con la padella si solidifichi rapidamente però si mantenga umida. Se ci sono sacche di liquido non preoccupatevi, vanno benissimo. Le dosi che ho indicato sopra sono quindi indicative e calcolate per uova grandi (state un po’ più indietro se usate uova più piccole e comunque sentitevi liberi di aggiungere qualche cucchiaiata di dashi in più)

Fermo immagine di momento critico durante il video: se accade anche a voi, andate avanti e arrotolate.

Fermo immagine di momento critico durante il video: se accade anche a voi, andate avanti e continuate ad arrotolare che non cambia proprio nulla…

La terza parola d’ordine è SPREGIUDICATEZZA NEL RIBALTARE LA FRITTATA
Vedrete tanti filmati con dei giapponesi abilissimi nel girare il tamagoyaki con le bacchette (per esempio questo video): bene cari, se volete provare con le bacchette IN BOCCA AL LUPO E CIAONE. Non so voi, ma anche se sono capace di mangiare con le bacchette (e verso la fine del pasto spesso ho dei crampi alla mano) di cucinarci non se ne parla proprio. Per rigirare il tamagoyaki usate pure una paletta, infilatela sotto al rotolo, se riuscite date un colpetto di polso per girarlo (io AHAHAHAHAHAHA proprio zero) non abbiate paura di piegoline, strappi, mollezze, buchi. L’importante è riuscire ad arrotolare e compattare, arrotolare e compattare… evitate solo che lo spessore della frittata sia irregolare.

La quarta parola d’ordine è NON BRUCIARE
Tenete la padella calda ma sopra a una fiamma non troppo aggressiva, perché l’uovo deve rimanere compatto e giallo, non deve fare nessuna crosticina marrone altrimenti il tamagoyaki diventa brutto, dalla consistenza irregolare e sembra una Girella Motta (con le bruciature al posto del cacao).

La quinta e ultima parola d’ordine è LASCIARE RAFFREDDARE
Appena avete finito la miscela di uova e avete arrotolato l’ultimo strato, spegnete il fornello e, con una paletta di legno, spingete tutte le facce del tamagoyaki contro i bordi della padella: finché è caldo dovete conferirgli il più possibile una forma di parallelepipedo (questa operazione la vedete bene verso la fine del mio video). Dopo di che appoggiate il tamagoyaki su una tovaglietta di vimini e lasciatelo raffreddare.
Il tamagoyaki va mangiato a temperatura ambiente!

Il tamagoyaki del video è stato mangiato dopo due ore di raffreddamento e ha contribuito - nella misura di tre uova sbafate in cinque minuti - alla razione quindicinale di uova della sottoscritta.

Il tamagoyaki del video è stato mangiato dopo due ore di raffreddamento e ha esaurito – con la misura di tre uova sbafate in cinque minuti – la quantità di uova che di solito la sottoscritta si mangia in 7-10 giorni.

RuMi Mama risponde: dove si compra il miso?

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Mi scrive via Facebook la mia amica Daniela, che una sera ha deciso di preparare il ramen e mi chiede: Mi sai dire dove trovare il miso? Da me ho visto solo questi preparati con anche alghe e gamberetti, ma vorrei provare a fare senza, e mettere io il miso e le alghe che voglio.

Innanzitutto complimenti per l’intraprendenza, perché fare un ramen (soprattutto il suo brodo) non è semplice. Il brodo del ramen di solito è a base di carne (ne esistono di vari tipi, un po’ come da noi in Italia) che può essere aromatizzato in varie maniere, per esempio anche con il miso.

Il miso è uno dei principali ingredienti della cucina giapponese ed è anche usato come insaporitore. Si tratta di una pasta fermentata a base di soia e cereali (per esempio riso, orzo) e ne esistono di moltissimi tipi a seconda della durata della fermentazione, del cereale usato, della consistenza, di altri ingredienti aggiunti alla ricetta di base che lo possono addirittura trasformare in una preparazione da mangiare come accompagnamento e condimento (il kinzanji miso per esempio include verdure e viene usato per accompagnare il riso, dubito si trovi in Italia, lo riporto solo come esempio).

Quello che più ci interessa è che il miso lo si trova nei negozi etnici, tendenzialmente di due tipi: miso rosso e miso bianco. 

Il miso bianco attualmente nel frigo di RuMi Mama.

Il miso bianco attualmente nel mio frigo. Lo trovo più facile da dosare del sapidissimo miso rosso.

Il primo (akamiso) ha un colore tra il rosso e il marrone, è a base di riso ed è MOLTO salato. Il miso bianco (shiromiso) è più delicato.
Per insaporire un brodo è possibile usare entrambi: esistono delle confezioni di miso bianco e rosso già mescolati (awasemiso), ma li puoi mischiare anche tu sulla base del tuo gusto personale.
Dosare il miso non è semplice, ti consiglio come primo tentativo di basarti sulle quantità indicate da una ricetta e, solo in seguito, variarle seguendo il tuo gusto. Lo stesso dicasi per altre ricette che richiedano l’impiego del miso.

Infine una precisazione per fugare qualsiasi equivoco: nei supermercati ora si trovano molte buste di zuppe di miso liofilizzate. Con zuppa di miso si intende una “zuppa a base di miso” fatta con due ingredienti di base: miso e brodo dashi. Poi dentro ci si possono trovare molte cose come tofu, gamberetti, cipollotto, alghe, rapa giapponese (il daikon) e così via…  Tuttavia non confondete il MISO (ingrediente) con la zuppa di miso (una preparazione a base di miso).

 

Takoyaki fatti in casa: SI.PUÒ.FARE!

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Come raccontavo qualche giorno fa, mi sono attrezzata per preparare i takoyaki, le squisite polpette di polpo di Osaka. Raccogliere gli ingredienti non è stata una passeggiata e avevo qualche timore per la realizzazione tecnica: invece è andato tutto così bene che sono proprio contenta. Non solo mi sono divertita ma erano squisiti e perfetti, uguali a quelli giapponesi <3.  A dirla tutta è proceduto in modo molto meno complicato di quanto potesse sembrare: non è una cosa per iniziati, chiunque può farli, basta aver voglia di sbattersi un po’. E poi guardateli… guardate come sono fighi! 😀

Primo round di takoyaki, già conditi con il topping necessario e pronti per essere mangiati ancora bollenti!

Primo round di takoyaki, già conditi con il topping necessario e pronti per essere mangiati ancora bollenti!

La padellina per i takoyaki vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

La padellina per i takoyaki vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

Gli ingredienti per i takoyaki non sono proprio introvabili, però qui a Milano sono dovuta andare in due negozi per completare la caccia al tesoro: se avete la possibilità, vi consiglio di andare diretti in un negozio specializzato in alimenti giapponesi, probabilmente riuscite a portar a casa il malloppo in un colpo solo.

Siccome non amo piazzare sul blog le ricette senza spiegare gli ingredienti, prima di tutto vi descrivo con cosa si fanno e condiscono i takoyaki, e se non avete voglia di leggere l’approfondimento, scorrete sotto all’elenco degli ingredienti, perché poi trovate pure il primo video-girato-nella-mia-cucina!!!)

I takoyaki sono sostanzialmente delle (fragranti fuori, e morbide dentro) palline di pastella ripiene di pezzetti di polpo bollito, erba cipollina (meglio il cipollotto se lo trovate buono, purtroppo quel che ho trovato io era orrido e ho ripiegato sulla cipollina) e beni shoga. A cottura terminata vengono conditi con alga aonori, maionese giapponese, salsa okonomiyaki e katsuobushi.

Eccallà, questa parte subito con le parole difficili, MO’ COSA È ‘STO BENI SHOGA? CHE SCHIFO LE ALGHE! E SE VADO IN UN NEGOZIO A CHIEDERE IL KATSUOBUSHI NON È CHE MI SBATTONO IN UN ANGOLO E MI FANNO LE COSE BRUTTE?

CALMA. SANGUE FREDDO. NESSUNA PAURA. SONO INGREDIENTI STRANIERI, MA VENGONO IN PACE PER DELIZIARE IL NOSTRO PALATO E GLI OCCHI.

A sinistra il beni shoga per i takoyaki. Non confondetelo con il gari shoga (quello a destra) che viene servito accanto al sushi.

A sinistra il beni shoga per i takoyaki. Non confondetelo con il gari shoga (quello a destra) che viene servito accanto al sushi.

Il beni shoga  è zenzero tagliato a julienne e marinato nell’umezu, una soluzione a base di foglie di perilla rossa. Da questa marinatura le striscioline di zenzero vengono fuori rosse, con un sapore molto forte che però nella cottura si disperde un po’ e soprattutto si accompagna molto bene col polpo. Non confondetelo con lo zenzero marinato che di solito viene servito assieme al sushi (il gari shoga): sono due marinature diverse, il gari shoga è pure tagliato a lamelle, e il gusto non è per nulla simile perché la marinatura di quest’ultimo è a base di zucchero. Non che il beni shoga sia facile da trovare, ma viene comunque importato: io l’ho trovato in una bustina, nel banco frigo di un alimentari dedicato al cibo giapponese/coreano. Costo 2,5 euro.

 

 

A sinistra la confezione di maionese giapponese, a destra quella della salsa okonomiyaki

A sinistra la confezione di maionese giapponese, a destra quella della salsa okonomiyaki

Per il topping dei takoyaki caldi c’è molto da sovrapporre: prima vanno spennellati con la salsa okonomiyaki. Questa salsa può anche esser preparata in casa, certochesì, ma per evitare sbattimenti e inutili complicazioni l’ho comprata già pronta in barattolo. Poi un un altro negozio ho trovato della stessa marca la salsa specifica per i takoyaki: gli ingredienti sono praticamente gli stessi, si tratta di una buona salsa densa e di colore scuro (tipo la BBQ). Visto che si parla dell’omonima salsa, non posso non ricordarvi che gli okonomiyaki sono un altro cibo tipico giapponese: delle frittatone porcone a base di TUTTO, per esempio carne, pesce, verdure, spaghetti, maionese, salsa okonomiyaki, katsuobushi. TUTTO HO DETTO. 500 grammi di salsa 5,50 euro. (lo so è tanto, ma perlomeno so che la userò tutta).

Un discorso a parte va fatto per la mitologica/mitica maionese giapponese, che effettivamente ha un gusto e una consistenza diversi rispetto alle maio industriali che siamo abituati a mangiare qui in Italia o anche in altri paesi occidentali. Non che gli ingredienti siano particolarmente diversi: aceto, uova, olio sono il punto di contatto. La differenza, a quanto pare, la fa il succo di yuzu, un agrume orientale che a vista pare un mandarino con la buccia del limone. Non l’ho mai assaggiato ma leggo che il sapore del succo è una mezza via tra il limone e l’arancia. Poiché la maionese giapponese acquistata in barattolo è anche quella di produzione industriale, ritengo che sapore e consistenza dipendano da dosaggi diversi degli ingredienti. Se mai avete fatto la maionese in casa saprete che basta poco per rendere più spessa o più liquida la maio e anche per farle cambiare sapore. Preparatevi: costa una sassata ed è difficilotta da trovare. 500 grammi poco meno di 6 euro. Potete sostituirla con la maionese arricchita con yogurt, che è un po’ più delicata, tuttavia se il vostro negozio di fiducia la tiene, non perdete l’occasione di acquistarla almeno una volta, perché è squisita in qualsiasi contesto in cui la maionese abbia un senso (ossia ovunque. METTEREI LA MAIONESE OVUNQUE).

Un po' di katsuobushi. L'odore di pesce è molto forte.

Un po’ di katsuobushi. L’odore di pesce è molto forte.

Il katsuobushi magari l’avete già sentito nominare in ricette anglofone col nome di “bonito flakes“, ossia “fiocchi di bonito“. Sono scaglie sottilissime di pesce secco (di solito tonnetto, sgombro…). Taglio corto perché anche il katsuobushi arriva da una preparazione molto particolare, ha un forte sapore di pesce (embè è pesce) e ne ho già accennato su Rumi Mama perché è uno degli ingredienti di base del brodo dashi. La particolarità di questi fiocchi è che sono così leggeri che, quando vengono messi sopra a una pietanza calda, iniziano a danzare, mossi dal vapore. A qualcuno potrebbero anche fare impressione perché sembrano qualcosa di vivo, ma vi assicuro che è solo pesce secco e non c’è bisogno di scomodare Voyager. Anche il katsuobushi è costosissimo: ho trovata busta enorme da 30-40 grammi a più di 10 euro e non l’ho presa perché è una quantità enorme di pesce che rischio di buttare. Fortunatamente in un altro negozio ne ho presa una da 15 grammi a metà prezzo, perché prossima alla scadenza: 2,60 euro!

Una fotina anche per le alghe secche, anche se si vedono meglio nellas foto dei takoyaki fatti e finiti.

Una fotina anche per le alghe secche, anche se si vedono meglio nellas foto dei takoyaki fatti e finiti.

Completo la lista degli ingredienti strani con l’alga aonori, un tipico topping giapponese da spolverare sopra al cibo e che va messo anche sopra ai takoyaki. Si tratta di alga nori secca che invece di essere presentata in fogli viene polverizzata, tutto qui. È la stessa alga che compone i fogli  con cui si avvolgono i rotolini di sushi, i maki, i temaki e compagnia cantante. Tanto che, se lo preferite, potete prendere un foglio di alga nori e tagliuzzarlo.
Io ho comprato un prodotto chiamato “Green nori sprinkle” (costo 2 euro abbondanti), solo che analizzando il nome scientifico indicato sulla confezione (ulva pertusa), ho capito che l’alga utilizzata era la lattuga di mare, che non appartiene a quella serie di alghe utilizzate per fare i nori (tutte alghe di genere porphyra). “Buono a sapersi” si dice: il sapore è quello solito delle alghe secche. Non sono molto esperta di alghe, quindi le metto nella lista delle cose da scoprire per i prossimi post di RuMi Mama.

 ****L’ELENCO DEGLI INGREDIENTI PER PREPARARE I TAKOYAKI *****

***RICETTA PASTELLA PER 16 TAKOYAKI***
1 uovo
340 ml di brodo dashi
100 grammi di farina 00
1 cucchiaino di salsa di soia
2-3 pizzichi di sale

***RIPIENO DEI TAKOYAKI***
Polpo bollito e tagliato in piccoli pezzi (non ne serve molto, due tentacoli ciccioni possono bastare)
Erba cipollina (meglio ancora il gambo di cipollotto tagliato a striscioline)
Beni Shoga (zenzero marinato): lo trovate a julienne, meglio se lo tritate un po’.

***DECORAZIONE TAKOYAKI***
Salsa okonomiyaki
Maionese giapponese
Alga aonori
Katsuobushi (fiocchi di pesce secco)

*** E ORA IL VIDEO!!***

Ora che siete arrivati interi fin qui, avete una bella sorpresa, perché con il video di preparazione dei takoyaki inauguro anche il Canale di YouTube di RuMi Mama: vi invito a iscrivervi 🙂
Il mio video di preparazione dei takoyaki è realizzato in time-lapse: non è un filmato ma il montaggio di fotografie scattate a intervalli regolari e ravvicinati. La preparazione in cottura è durata in tutto 20-25 minuti, il video è lungo poco più di un minuto. Qui è piccolino, ma sul canale è in alta definizione e bello grande.

Come vedete i takoyaki nell'angolo in basso a destra si cuocevano più lentamente. Nulla di irrimediabile :)

Il takoyaki in alto a destra sta roteando felice. I takoyaki nell’angolo in basso a destra si cuociono più lentamente. Nulla di irrimediabile, basta girare la padella sulla fiamma o comprare uno spargifiamma.

Sì, quella che vedete è la mia cucina, quelle mani sono le mie e chiaramente è stato fatto tutto in modalità “BUONA LA PRIMA” (quindi se andava male, non vedevate nulla) 😀
La prima cosa che ho fatto è stata posizionare la padella sulla fiamma bassa e piccola del fornello centrale e aspettare che si riscaldasse. Poi l’ho unta con olio di semi con l’aiuto di un tovagliolino. Ho unto tutto, sia le concavità sia i bordi. Ho riempito di pastella i buchi: è molto liquida e si cuoce lentamente. Senza fretta ho messo i pezzi di polpo nei buchi, spolverato con il beni shoga (non l’ho tritato, era meglio farlo) e l’erba cipollina, e infine riempito a filo con la pastella. A questo punto si attende che la pastella si cuocia un po’ e si dividono i riquadri con l’auto di due stuzzicadenti lunghi da spiedini. Si infila la punta sotto un wannabe-polpettino e lo si inclina per uniformare la cottura. Man mano che si girano il polpettini bisogna spingere la pastella esterna verso l’interno della sfera, aiutandosi con le punte degli stecchini: a guardarlo pare difficile, ma avviene tutto molto naturalmente, la pastella collabora! L’unico problema che ho riscontrato e che in parte avevo previsto è che la padellina è più fredda ai quattro angoli, quindi dopo un po’ l’ho dovuta spostare per far finire la cottura delle polpette più sfigate. Appena la cottura si avvia, i takoyaki diventano un po’ croccanti fuori e rimangono morbidi dentro: in questo modo è molto semplici farli roteare dentro le cavità, rincalzare la pastella in eccesso e dare loro la perfetta forma sferica che hanno alla fine della preparazione.

I takoyaki a cottura ultimata! Sono dorati e soffici.

I takoyaki a cottura ultimata! Sono dorati e croccanti fuori, soffici e bollenti dentro.

Vanno conditi e mangiati ancora caldi: sono pronti quando sono dorati su tutta la superficie. La cottura è ultimata quando se li punzecchiate con lo stuzzicadenti e sono ancora soffici, la crosticina esterna è sottile e compatta e l’interno, con un cuore succulento di pastella e polpo, è ancora morbido.

Gustateli con una birra fresca e… どうぞ、召し上がって下さい! Meshiagatte kudasai!