È arrivata la padella per il takoyaki

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Rumi Mama è risorto (viva RuMi Mama!), nonostante il periodo purtroppo molto, MOLTO complicato. C’è in corso un tasting di ravioli cinesi surgelati per suggerirvi quelli migliori (sulla pagina di Facebook ne ho già fotografato un marchio), ma nel frattempo sono stata punzecchiata per cimentarmi in una preparazione giapponese: il takoyaki.

Takoyaki

I takoyaki di solito vengono serviti con un topping di maionese giapponese, alghe secche e scaglie di pesce secco (quello rosa che vedete in questa foto)

Si tratta di un tipico cibo di strada giapponese di cui ho già parlato nel giugno 2014 in occasione del post sul Milano Matsuri (a proposito: ce ne sarà un’edizione anche quest’anno all’interno del Milano Manga Festival).

Il takoyaki è tipico di Osaka: sono delle polpettine (tante. Non vorrete mangiarne solo una!) di polpo e pastella cucinata in appositi stampi. Di recente ho passato serate intere a documentarmi non tanto sulla ricetta ma sulla tecnica di preparazione delle polpette. Se guardate anche solo un pezzo di questo video vedrete che serve una manina d’oro. Prevedo schizzi di pastella in ogni dove…

Finalmente oggi, nel primo pomeriggio, mi hanno consegnato il pacchetto contenente la padellina speciale per fare i takoyaki in casa, quindi nel weekend proverò a farli: SE TUTTO VA BENE AL PRIMO COLPO, riuscirò a documentare ricetta e sequenza preparatoria la prossima settimana! Comunque vi tengo aggiornati sulla pagina Facebook di RuMi Mama.

La scatola già fa venire l'acquolina in bocca!

La scatola già fa venire l’acquolina in bocca!

 

La padellina vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

La padellina vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

La padellina vista da sotto. Ha gli incastri per non scivolare dal fornello, ma avrò bisogno di uno spargifiamma

La padellina vista da sotto. Ha gli incastri per non scivolare dal fornello, ma avrò bisogno di uno spargifiamma

 

 

 

 

 

 

 

Ho ordinato su Amazon la padellina per fare i takoyaki, (trovate qui sotto un “discreto” link di affiliazione: se la volete comprare cliccando qui, vengo ricompensata con qualche spicciolo, ma se volete venire a casa mia a darmi una mano in cucina mi fa anche più piacere!!).

http://rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?t=ruma-21&o=29&p=8&l=as1&asins=B0098HKKL0&ref=tf_til&fc1=000000&IS2=1&lt1=_blank&m=amazon&lc1=0000FF&bc1=000000&bg1=FFFFFF&f=ifr

RUMI MAMA TORNA PRESTO, QUESTA VOLTA E’ VERO SUL SERIO 🙂

#FrigoVuoto? Io ordino a domicilio il sushi rosa!

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[Questo post partecipa alla campagna #FrigoVuoto di Just Eat, sito che frequento abitualmente perché non sempre ho voglia di cucinare o andare a far la spesa e ho anche spesso voglia di viziarmi. In sostanza è stato sponsorizzato da Just Eat, con un buono di 10 euro. Io l’ho usato per farmi spedire una cena a base di sushi un po’ diverso dal solito preparato dal ristorante SoSushi. Il post è interessante a prescindere perché offre uno spunto soprattutto alle persone che non amano l’alga secca (l’alga NORI) che avvolge sempre i rotolini di sushi, che si chiamano MAKI]

Guardate come sono carini questi questi MAKI (è il nome generico per indicare i rotolini di sushi). Salta subito all’occhio che quelli a destra e a sinistra non sono avvolti nella tradizionale alga nori, ma in un foglietto rosa e in uno giallo (a sinistra). Al centro, invece, c’è un tradizionale uramaki (rotolini di riso con l’alga interna).

Da sinistra verso destra Maki Cocktail, maki Amazon, maki Pink ordinati da SoSushi.

Da sinistra verso destra maki Cocktail, maki Amazon, maki Pink ordinati da SoSushi.

Elenco dei ripieni

Da destra: Pink maki con salmone, philadelphia e cetriolo; Cocktail maki con gambero, salsa cocktail e insalata, Amazon uramaki con mango e salmone.

sosushi5Cosa è quel foglietto colorato che avvolge i maki? È “carta di soia”, in giapponese la chiamano anche MAMENORI, o MAMENORI SAN (non è un nome comune di cosa, ma un marchio registrato della J-Oil Mills, Inc. un’azienda alimentare giapponese affiliata alla Ajinomoto, quella che produce il brodo dashi liofilizzato più famoso). Prodotti simili si trovano online anche sotto il nome di “soy wrapper” e li ho visti in vendita anche qui a Milano in un fornitissimo alimentari etnico (vi avviso, costavano TANTISSIMO).

In questa foto di Getty Images forse vi fate un’idea più chiara della sua consistenza impalpabile.

Embed from Getty Images

 

Che gusto ha questa carta di soia? Non sa di salsa di soia, tranquilli, quindi non è per nulla salata: sostanzialmente è ottenuta tramite la lavorazione del frutto della soia (la soia è una pianta, lo sapete tutti MA NON SI SA MAI, EH), un legumino altamente proteico: si tratta quindi di un foglio di proteine e coloranti. Il sapore è abbastanza delicato, anche perché si tratta di un foglio talmente sottile che, assieme al riso e al ripieno del maki, si nota appena: tuttavia è tendenzialmente dolce, al punto da dare al rotolino di sushi tutto un altro gusto, lontano le mille miglia da quello tradizionale. Anche la consistenza è abbastanza impalpabile: io lo paragonerei a quella di una particola, ma senza la sua rigidità. La carta di soia, infatti, è sufficientemente elastica per avvolgere gli alimenti. Come l’alga nori patisce un po’ l’umidità e tende a diventare gommosa.

Oltre ai tradizionali maki ho anche ordinato questo involtino fatto con la carta di soia trasparente. Contiene insalata, riso, surimi e tobiko, gli ovetti di pesce rossi (sono uova di pesce volante): in questo caso la carta di soia serve per tenere unito tutto l’involtino. Aiuta a mangiarlo senza rovesciarsi tutto addosso 😀

Se osservate bene la parte con gli ovetti rossi di questo involtin, noterete che è compressa proprio dal  foglio di carta di soia. Praticamente insapore, aiuta a contenere il cibo.

Se osservate bene la parte con gli ovetti rossi di questo involtini, noterete che è compressa proprio dal foglio di carta di soia. Praticamente insapore, aiuta a contenere il cibo.

Raviollola #3 Risposte ai lettori: il doenjang coreano

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Mi tagga Charlie via Instagram sulla fotografia di un prodotto che ha comprato in un alimentari etnico. La sua domanda è chiara, RuMi Mama è qui per risolvere ogni dubbio!

Question: ho comprato alla cieca questo prodotto da un "international Food" in Paolo Sarpi lo spacciano come pasta di soia, qualcuno sa spiegarmi come lo posso usare?

Question: ho comprato alla cieca questo prodotto da un “international Food” in Paolo Sarpi lo spacciano come pasta di soia, qualcuno sa spiegarmi come lo posso usare?

Caro Charlie, hai comprato una confezione di DOENJANG, un prodotto tipico coreano che mi azzardo a definire “miso coreano”, visto che è preparato in modo molto simile al miso giapponese.

Sia il miso sia il doenjang sono paste ottenute pestando i semi di soia e facendoli fermentare. Quando si va al giapponese e si ordina una di zuppa di miso si fa riferimento a una zuppa fatta con brodo a base di miso e altri ingredienti (e non, come erroneamente molti pensano, una zuppa a base solo di miso).

Tanto il miso quanto il doenjang non sono fatti per essere mangiati da soli o spalmati su un panino, perché come potrai constatare assaggiando il tuo doenjang, sono molto sapidi. Sono quindi usati tradizionalmente come insaporitori per vedure, carni, basi per brodo, salse per intingoli o mescolati con altri ingredienti: al doenjang in particolare si possono aggiungere aglio, olio di sesamo e paste fermentate al peperoncino per poi gustare il tutto con del riso.

Nella tua cucina puoi usarlo come insaporitore al posto del dado, però devi imparare a calibrare bene le dosi.

Onsen tamago: l’ovetto va alle terme

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[cronaca di una scoperta curiosa e di un esperimento riuscito a metà]

Quando ho letto di questo modo giapponese di cucinare le uova, mi si è stampato un sorriso in faccia. È la classica “scoperta dell’acqua calda”, che a sentirla pare tanto ovvia ma alla fine non è mai passata per la testa.
Partiamo dal nome, che già spiega tutto: in Giappone gli onsen 温泉 sono le stazioni termali (l’arcipelago giapponese ha più di un centinaio di vulcani, le sorgenti di acqua calda naturale sono molto diffuse su tutto il territorio). Andare all’onsen è una tradizione tipica locale, un momento da vivere assieme, un po’ come il convivio (però son tutti nudi o con un asciugamanino a coprire le pudenda). Tuttavia non sono qui per spiegarvi il galateo alle terme giapponesi, ma per parlarvi della temperatura dell’acqua, che negli onsen sta attorno ai 65-68 gradi.

Kita Onsen, Nakagawa-machi, Prefettura di Tochigi. Immagine in licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/johngcramer

Kita Onsen, Nakagawa-machi, Prefettura di Tochigi. Immagine in licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/johngcramer

Bene: in quest’acqua calda, ma non bollente, i giapponesi, oltre a fare tranquille e rilassanti abluzioni, ci cucinano le uova di gallina (tamago 卵), tenendocele a mollo per circa mezz’ora, quaranta minuti.
Cosa succede a un uovo quando lo immergiamo nell’acqua calda? L’albume inizia a solidificare attorno ai 58 gradi, a 80 gradi è completamente rappreso. Il tuorlo, invece, si cuoce completamente a 70 gradi (esistono dei geek che sono fissati anche con la cottura dell’uovo e formulano strane funzioni basate su volume, temperatura, tempo, roba da far girare la testa, provate a guardar qui).
La cottura nell’acqua dell’onsen cuoce il tuorlo, mantenendone però il colore vivido e una consistenza cremosa, mentre l’albume diventa biancastro ma rimane un po’ liquido. Il risultato non è paragonabile né a quello dell’uovo in camicia (albume troppo solido, tuorlo troppo liquido) né a quello dell’uovo alla coque (tutto troppo liquido).

Uova in cottura nell'onsen. Immagine in licenza CC, alcuni diritti riservati. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/eylc/

Uova in cottura nell’onsen. Immagine in licenza CC, alcuni diritti riservati. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/eylc

Gli "izakaya" sono le osterie giapponesi in cui, oltre a servire alcool, vengono portati in tavola tanti piccoli piatti pieni di assaggini. Tipo le tapas spagnole o i dim sum cinesi.

Gli “izakaya” sono le osterie giapponesi in cui, oltre a servire alcool, vengono portati in tavola tanti piccoli piatti pieni di assaggini. Tipo le tapas spagnole o i dim sum cinesi.

Questa storia dell’uovo onsen l’ho scoperta leggendo un libro di ricette giapponesi che ho acquistato di recente in Francia (l’immagine di copertina qui accanto). Per ottenere l’uovo onsen l’autrice consiglia di immergere un uovo a temperatura ambiente (non freddo di frigo, altrimenti rischia di spaccarsi) per 12 minuti in una pentola coperta con acqua portata a ebollizione e poi tolta dal fuoco. Non avendo la possibilità di fare gli esperimenti di Bressanini (il quale racconta la cottura dai 65 ai 69 gradi in questo articolo del 2007) mi sono affidata a questa tecnica, trovandone dei riscontri anche in altri siti e video.
Non essendo mai stata in un onsen, non ho la possibilità di fare un confronto diretto tra la cottura in acqua termale e quella casalinga, e per il riscontro visivo devo affidarmi al confronto con immagini scattate da altre persone che hanno un bagno termico (ossia uno strumento capace di mantenere costante la temperatura dell’acqua).

 RuMi Mama esperimenta in cucina

Come ho accennato a inizio articolo, l’esperimento è riuscito a metà perché credo di aver versato sull’uovo l’acqua troppo calda (nonostante avessi anche atteso che perdesse il bollore). Il risultato è stato che la parte esterna dell’albume si è attaccata alla parete interna del guscio, quindi in sostanza è rimasto poco albume biancastro liquido (presumo debba rimanere tutto o quasi e comunque presentarsi in forma compatta, non a pezzi come è successo a me…). Il tuorlo, invece era cotto giusto: color arancione vivo, consistenza solida ma cremosa e non stopposa, ancora umida in tutto il volume. Ho aperto l’uovo picchiettandolo a metà, come potete vedere in immagine.

Vedete che l'albume è rimasto umido? Poi sono riuscita a rovesciare la parte rimasta morbida nella ciotola assieme al tuorlo.

Se ingrandite la foto, vedrete che verso l’interno l’albume è rimasto umido. Doveva essere tutto così. Poi sono riuscita a rovesciare la parte rimasta morbida nella ciotola di portata.

Come va servito e mangiato un ovetto così? Avevo una mezza idea di mangiarlo con gli asparagi, poi ho optato per la preparazione tradizionale “alla giapponese”: ho messo in una ciotola 7-8 cucchiai di brodo dashi a temperatura ambiente (il dashi è il brodo di base della cucina giapponese e di alcuni intingoli), ci ho aggiunto un goccio di mirin (è un sake speciale per cucinare, meno alcoolico e più dolce) e un goccio di salsa di soia. ho mescolato questi ingredienti, ci ho versato dentro l’uovo, e poi ho guarnito con dell’erba cipollina (non avevo del verde di cipollotto, sarebbe più indicato, se tagliato finemente).

Il poco albume rimasto morbido e il tuorlo intero, bellissimo. Mannaggia all'albume...

Il poco albume rimasto morbido e il tuorlo intero, bellissimo. Mannaggia all’albume…

Ecco il tuorlo: è venuto meglio dell'albume. Cremoso, arancione, forse un filino troppo cotto... Tuttavia con la salsina di dashi, mirin e soia va giù che è una meraviglia, è SQUISITO!

Ecco il tuorlo spezzato col cucchiaio: è venuto meglio dell’albume. Cremoso, arancione, forse un filino troppo cotto… Tuttavia con la salsina di dashi, mirin e soia va tutto giù che è una meraviglia, è SQUISITO! Provatelo!

In conclusione se siete curiosi di provare e non avete in programma prossimamente una gita all’onsen giapponese, vi consiglio di non far bollire l’acqua o comunque di farla raffreddare un po’ (se avete un termometro secondo me a 80 gradi può andare. Nella pentola dovrebbe dissipare calore in fretta, ma sono misure molto poco scientifiche, dovrei fare più esperienza. Cosa che farò, ma nel frattempo ci tenevo anche a raccontarvi questo esperimento, sono sicura che l’idea di cuocere l’ovetto nelle acque termali ha incuriosito anche voi… pensate che i giapponesi cuociono le uova anche nelle acque termali sulfuree (nella località di Owakudani, una vallata vulcanica con soffioni sulfurei, regione del Kanto, quindi nella zona centrale dell’arcipelago) ottenendo così delle uova con il guscio nero: si chiamano kuro tamago (黒卵 uova nere) e sono sode 🙂 Questi in casa non li posso provare a fare, perché il vulcano non va da RuMi Mama: magari un giorno RuMi Mama andrà dal vulcano! 🙂

Se mai vi capitasse di mangiare un vero onsen tamago, cucinato in acqua termale o in acque sulfuree, ricordatevi di me e mandatemi un saluto con il vostro ovetto: sarete pubblicati ^___^

Un kuro tamago cotto nelle acque sulfuree. Praticamente è sodo. Immagine con licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/gunnsteinlye/

Un kuro tamago cotto nelle acque sulfuree. Praticamente è sodo. Immagine con licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/gunnsteinlye

I baozi e lo strano mattarello cinese

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Un baozi addentato famelicamente ma trattenuto con somma eleganza dalla sottoscritta con le bacchette

Un baozi addentato famelicamente ma trattenuto con “somma eleganza” dalla sottoscritta con le bacchette

Oggi si parla di bāozi 包子, da pronunciarsi rigorosamente con la lunga sulla A e con una Z un po’ mozza in chiusura. Si tratta di una preparazione tipica cinese, un cibo casalingo e di strada. L’occasione per imparare a prepararli è nata grazie a un nuovo evento organizzato da Presso in via Paolo Sarpi dall’Istituto Confucio dell’Università Statale di Milano in occasione della rassegna “Aperitivi per EXPO” e intitolato “Oltre i fornelli, la strada”. L’incontro ha avuto un’introduzione accademica tenuta dall’architetto Francesco Collotti dell’Università di Firenze. Il professore ha illustrato come in Cina il confine tra lo spazio pubblico (la strada, i parchi, le piazzi) e quello privato (le case, le corti interne) spesso non sia molto marcato. Questo aspetto si ripercuote anche nel tradizionale “street food” che a volte può essere acquistato e gustato proprio negli spazi antistanti le abitazioni private. A una serie di fotografie suggestive e succulente, è seguito un divertente e interessante showcooking su come si preparano i veri baozi cinesi, i panini ripieni cotti al vapore che possono essere mangiati per strada ma anche preparati in casa. Protagoniste dello showcooking sono state Marta Valentini (direttore esecutivo del Confucio) e Zhang Yang, che è insegnante volontaria sempre presso l’istituto e in particolare la MIA insegnante di cinese in questo semestre: è stato simpatico vederla alle prese con mattarello, impasti, farina e ripieni con un delizioso grembiule da cucina! Lei ha imparato a cucinare i baozi da sua mamma, un po’ come io ho imparato a far le tagliatelle e il ragù dalla mia 🙂

 sinistra Marta Valentini, direttore esecutivo dell'Istituto Confucio, a destra Zhang Yang, insegnante dell'Istituto che si è prestata a spiegare la preparazione dei baozi cinesi

A sinistra Marta Valentini, direttore esecutivo dell’Istituto Confucio. A destra Zhang Yang, insegnante dell’Istituto che si è prestata a spiegare la preparazione dei baozi cinesi.

I baozi sono dei panini ripieni cotti al vapore. Ne esistono due varianti: una con pasta lievitata (quello di cui parliamo qui), l’altra con pasta non lievitata. I ripieni sono vari, tradizionalmente ci si può trovare dentro carne di maiale, carne di maiale e cavolo, verdure oppure gamberi. Nulla ci impedisce di riempirli come vogliamo, quelli appena elencati sono i ripieni più comuni in Cina. Durante lo showcooking, oltre che la ricetta di famiglia di Zhang laoshi, sono emerse delle tecniche e degli attrezzi da cucina interessanti che derivano proprio dalla tradizione gastronomica locale e che, secondo me, hanno molto in comune con i gesti e gli utensili che possiamo trovare nelle case italiane. Prima di parlare della ricetta (che ritengo che sia solo la “punta dell’iceberg”) ci tengo a soffermarmi proprio su questi particolari.

L’impasto, come quello del pane
Partiamo con l’impasto lievitato: è a base di farina, acqua e lievito di birra secco. Deve essere lavorato molto, finché non diventa liscio ed elastico e poi lo si lascia riposare per due ore in un ambiente tiepido: la tecnica di preparazione è identica a quella del pane fatto in casa. Una volta ripreso in mano l’impasto e lavoratolo ancora un po’, bisogna formarlo (intendo proprio la formatura dell’impasto) come un lungo cilindro del diametro di 8-10 centimetri. Poi bisogna staccare i singoli pezzi da 4-5 centimetri di spessore, strozzando un po’ l’estremità del cilindro e strappandoli con un gesto molto secco della mano. Come nella realizzazione dei panini, è importante che il gesto sia secco per non rompere la maglia glutinica dell’impasto: si tratta proprio di gesti che chi panifica conosce bene e fa per ottenere sviluppi omogenei e di qualità.

Zhang laoshi sta per creare le singole palline di impasto. Notate che sta strozzando la giusta quantità per poi strapparla con un gesto secco.

Zhang laoshi sta per creare le singole palline di impasto. Notate che sta “strozzando” la giusta quantità per poi strapparla con un gesto secco.

Il mattarello stranissimo e i dischi volanti
Una volta ottenuti i singoli pezzi di impasto bisogna appiattirli a forma di disco: questo lavoro si avvia con le mani e poi lo si conclude con il mattarello cinese, che è un po’ diverso da quello nostro europeo per tirare la sfoglia di pasta. Quest’ultimo, infatti è un cilindro perfetto che mira a tirare la sfoglia sottile e dello stesso spessore in ogni punto. Il mattarello cinese, invece, è leggermente a forma di fuso, e verso le estremità si restringe un po’. Questo perché l’impasto del baozi non dovrà essere dello stesso spessore su tutta la sua superficie, ma un po’ più spesso al centro, in modo da assumere quindi la forma di un piccolo disco volante. Non ho avuto la presenza di spirito di domandare il motivo per cui l’impasto deve essere più spesso al centro, ma la spiegazione più sensata che sono stata in grado di darmi è che offre un rinforzo alla pasta e fa in modo che, una volta cotto tutto, il ripieno non collassi, sfondando l’involucro. Ho visto Zhang laoshi fare questa manovra con la disinvoltura e la velocità di una sfoglina emiliana: in pratica bisogna far rotolare il mattarello con la mano destra senza fargli fare il giro completo ma facendolo ondeggiare avanti e indietro per circa mezzo giro. Intanto con la mano sinistra si fa ruotare il disco di pasta per appiattirlo sul bordo e non al centro.

Osservate con attenzione l'impasto in primo piano sulla sinistra, vedete che non è interamente piatto ma al centro è più spesso? Così deve essere. Zhang laoshi maneggia il mattarello e fa girare l'impasto per stenderlo e assottigliare i bordi.

Osservate con attenzione l’impasto in primo piano sulla sinistra, vedete che non è interamente piatto ma al centro è più spesso? Così deve essere. Zhang laoshi, intanto, maneggia il mattarello e fa girare l’impasto per stenderlo e assottigliare i bordi.

Il panino coi merletti
Sulle chiusure degli impasti, soprattutto quando si tratta di fare preparazioni ripiene, c’è sempre molto da dire perché sono fondamentali: non solo devono “contenere” il ripieno ma anche non devono essere troppo spesse o irregolari, altrimenti la cottura non sarà uniforme. Dopo aver posizionato la giusta quantità di ripieno al centro del disco volante si procede con la chiusura “merlettata” che si fa tenendo il panino nella mano sinistra e accompagnando con le dita i lembi_ si usa il pollice della sinistra e pollice e indice della destra,e  al contempo si fa ruotare tutto sul palmo della mano. Come si vede dalla fotografia qui sotto non è obbligatorio che la chiusura sia sigillata.

I baozi sulla destra sono fatti da Zhang laoshi, mentre quelli più sfigatini a sinistra sono un tentativo poco riuscito degli avventori. Guardate dietro il mattarello cinese  com'è fatto.

I baozi sulla destra sono fatti da Zhang laoshi, mentre quei tre più sfigatini a sinistra sono un tentativo poco riuscito di tre coraggiosi che hanno voluto provare 😀 Guardate dietro il mattarello cinese com’è fatto!

Un'istantanea di Zhang laoshi che inizia a chiudere un baozi

Un’istantanea di Zhang laoshi che inizia a chiudere un baozi.

La ricetta di Zhang Yang

Zhang Yang sorride soddisfatta dopo aver concluso lo showcooking

Zhang Yang sorride soddisfatta dopo aver concluso lo showcooking

L’impasto
250 grammi di farina da impasti (Manitoba direi che va bene).
2,5 grammi di lievito di birra secco (non di più, altrimenti dopo la pasta prende il gusto del lievito, e invece NON si deve sentire).
150-200 ml di acqua tiepida (la quantità è variabile perché dipende molto da quanta ne assorbe la farina e se ne chiama parecchia. L’impasto deve risultare sodo, non troppo duro e non appiccicoso).

 

Il ripieno di carne di maiale
500 grammi di carne di maiale macinata
1 cucchiaino di cipolla tritata
1 cucchiaino di zenzero fresco sbucciato e tritato finemente a mano
1 cucchiaino di sale
2 cucchiai di salsa di soia
1 bicchiere di acqua in cui sono state messe poche bacche di pepe di Sichuan per rilasciare sapore (poi però la filtrate, eh, non buttate dentro al ripieno le bacche)
30 millilitri di olio di semi
10 millitri di olio di sesamo (ha un sapore molto forte, non esagerate)
mezzo cucchiaino di brodo granulare di pollo mescolato con della polvere “cinque spezie” (è una miscela che si trova negli alimentari etnici, è molto usata nella cucina cinese ed è composta da cannella, chiodi di garofano, anice stellato, pepe di Sichuan, semi di finocchio: se avete questi ingredienti, pestateli e ottenete lo stesso risultato)

Il riposo e la cottura
Dopo aver preparato i baozi come spiegato sopra, bisogna lasciarli riposare per una ventina di minuti, in modo che l’impasto riprenda la lievitazione. Poi bisogna cuocerli in una vaporiera per 20 minuti, avendo cura di proteggere il fondo del piano di appoggio con uno strofinaccio bagnato o una foglia di cavolo cinese, in modo che non si attacchi l’impasto.

Come vanno serviti e mangiati i baozi
I baozi vanno mangiati caldi e serviti con salsa di soia mescolata con aceto di riso (per questo motivo l’impasto non è molto salato). Mangiateli prendendoli in mano oppure tenendoli con le bacchette.

Allo showcooking i baozi ci sono stati serviti con aceto e salsa di soia. Accompagnati da fagioli edamame e della sempre ottima birra Tsing-Tao

Allo showcooking i baozi ci sono stati serviti con aceto e salsa di soia. Accompagnati da fagioli edamame e della sempre ottima birra Tsing-Tao

In conclusione: prima di preparare i baozi vi consiglio di mangiarli: se vi recate in un ristorante cinese provate a chiederli oppure cercate tra le scritte in cinese il loro nome: i caratteri sono questi  包子 e sono semplici da ricordare. Non confondeteli con i jiaozi 餃子 (i ravioli cinesi) che sono simili, ma più piccoli, raviolosi e cotti al vapore, alla griglia o addirittura fritti. Poi, dopo averli assaggiati, potete anche provare a farli in casa, magari con un ripieno alternativo, vegetariano, oppure di pesce, di carne di pollo… cercando di mantenerlo comunque saporito. E come al solito, buon appetito, viva la cuCINA!

Il cibo di strada giapponese (mangiato al Milano Matsuri)

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[un post volante per mostrarvi cosa ho mangiato di buono al Milano Matsuri, dove ho trascorso buona parte della giornata di sabato, mangiando e assistendo a qualche workshop]

Non capita tutti i giorni, a Milano, di mangiare “street food” giapponese. L’opportunità è nata con il Milano Matsuri (in giapponese “matsuri” significa “festa tradizionale”, i matsuri sono feste folcloristiche), un evento organizzato alla Fabbrica del Vapore dall’Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi il 24 e il 25 maggio. Non è facile ricreare a Milano l’atmosfera dei matsuri giapponesi, perché mancano i templi: queste feste sono strettamente legate alle festività giapponesi e alla religione. Del mio ormai lontano viaggio in Giappone, il ricordo dello street food è legato proprio a due templi: a Tokyo, al tempio di Asakusa, dove i profumi, la curiosità e la gente mi spingevano a desiderare tutto. A Kyoto, durante la discesa a piedi dal tempio di Kiyomizudera, dove negozietti vendevano dolci e altre bontà. Era il periodo di Capodanno e io scattai poche foto, dannazione.

Dal mio archivio personale: scendo a piedi dal tempio di Kiyomizudera a Kyoto, cercando di non fermarmi a mangiare in ogni negozietto.

Dal mio archivio personale, 1° gennaio 2007: scendo a piedi dal tempio di Kiyomizudera a Kyoto, cercando di non fermarmi a mangiare in ogni negozietto.

Dal mio archivio personale: 25 dicembre 2006, l'ingresso al tempio di Asakusa. Dove ci sono le luci, c'è cibo.

Dal mio archivio personale, 25 dicembre 2006, l’ingresso al tempio di Asakusa. Dove ci sono le luci c’è cibo, ogni bancarella ne vende uno diverso.

 

 

 

 

 

 

 

A Milano non si sono potuti portare i templi, ma almeno il cibo lo si è potuto preparare e vendere ai vari stand. C’era un menu molto vario e, un po’ per risparmiare (si pagava anche il biglietto d’ingresso), un po’ perché non è che potessi mangiare tuttotuttissimo, la mia scelta è ricaduta sui quattro piatti che seguono e che ci ho tenuto a documentare per RuMi Mama, così magari la prossima volta che vi trovate di fronte a qualche cibo straniero vi lasciate invogliare e non vi tirate indietro per paura di provare gusti diversi 🙂 Siate curiosi!
La cosa più bella di questo cibo è che è davvero fatto per essere mangiato in strada in piccoli bocconi, senza correre il rischio di sporcarsi troppo e ungersi fino ai gomiti: ottimo per chi, come me, ha problemi anche a mangiare un panzerotto in strada e lascia scie di mozzarella e pomodoro su giacche e marciapiedi. Il problema, semmai, è che i bocconi finiscono in fretta e bisogna mangiare con pazienza e assaporare: ci vuole esercizio, per non ingozzarsi 😀 Se non per buon appetito, almeno lustratevi gli occhi con queste pappe giapponesi a Milano!

Takoyaki

Takoyaki

Le polpette Takoyaki hanno all’interno morbidissimo polpo e zenzero, sono condite con salsa otafuku, maionese, alghe secche e bonito flakes. I fiocchi di bonito li vedete bene in cima alle pallette: si tratta di scaglie di tonno secco. La loro particolarità è che a contatto col calore si rattrappiscono e quindi si muovono. La salsa otafuku, invece, è quella utilizzata di solito per condire gli okonomiyaki ed è densa, scura, dolciastra e, tra le altre cose, è a base di salsa Worchester.

Pollo Teriyaki pronto per essere servito

Pollo Teriyaki pronto per essere servito, è buono da mangiare anche a temperatura ambiente

La mia porzione di pollo teriyaki. Notare la pelle, morbidissima, si scioglie in bocca

La mia porzione di pollo teriyaki. Notare la pelle che, morbidissima, si scioglie in bocca

 

 

 

 

 

 

 

Il pollo teriyaki è pollo fatto a bocconcini e cucinato con la salsa teriyaki, una salsa densa solitamente a base di salsa di soia, sakè e zucchero. Si tratta di una preparazione molto nota, solo che di rado capita di mangiare un pollo teriyaki così morbido: si scioglieva in bocca.

Cinque crocchette di Karaage: troppo sole per immortalarle bene, troppa fame per regolare l'esposizione

Cinque crocchette di Karaage di pollo: troppo sole per immortalarle bene, troppa fame per regolare l’esposizione

Il Karaage è una tecnica di preparazione che consiste nel marinare i bocconcini di carne, panarli e friggerli. In questo caso si trattava di pollo marinato nella salsa di soia, impanato e fritto. La pastella era molto corposa e aderiva alla perfezione alla carne. Nonostante il caldo, un signor pollo fritto.

Una ciotola di Gyudon, carne di manzo con riso

Una ciotola di Gyudon, carne di manzo con riso

Il mio viaggio nello street food giapponese si è concluso alle quattro di pomeriggio con il Gyudon una ciotola di riso bianco accompagnato con carne di manzo cucinata in salsa di soia, mirin e brodo dashi. Il mirin è sakè (vino giapponese) prodotto per cucinare. Il brodo dashi è una della basi della cucina giapponese e ve ne ho anche già parlato in un post specifico,  lo trovate anche in vendita liofilizzato negli alimentari etnici.

 

La strada per Expo 2015 passa per la cucina cinese

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A poco meno di un anno dall’inizio di Expo 2015, l’Università Statale di Milano inizia una lunga fase di rodaggio e avvicinamento alla manifestazione con la serie di incontri “Aperitivo per Expo“, un titolo di richiamo, semplice e immediato, fatto per catalizzare l’attenzione dei cittadini sul tema “Nutrire il Pianeta” (l’Expo sarà occasione di gozzoviglio: vi ho avvisati, non arrivate impreparati).
Tra gli incontri in cartellone, non poteva passare inosservato l’evento “Mangiare cinese: istruzioni per l’uso” organizzato dall’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano (presso cui, tra l’altro, studio cinese da più di un anno) al Polo di Mediazione Interculturale e Comunicazione. L’incontro, introdotto da Alessandra Lavagnino (membro del consiglio direttivo e direttore dell’Istituto) e da Marie Christine Juillon (Direttore del Dipartimento di Scienze della Mediazione Linguistica e di Studi Interculturali) è stato condotto da Marta Valentini, direttore esecutivo del Confucio, cinque anni vissuti in Cina e tanta esperienza “sul campo” in fatto di pappe buone provenienti proprio da lì.

Alessandra Lavagnino introduce l'"aperitivo per Expo" dedicato alla cucina cinese

Alessandra Lavagnino introduce l'”aperitivo per Expo” dedicato alla cucina cinese.

E il punto di partenza dell’”aperitivo” con tanto di cavolo cinese, pak choi e salsa di soia, pepe del Sichuan in bella mostra sulla cattedra, è stato proprio quello di ridimensionare alcuni degli stereotipi più diffusi riguardo la cucina cinese: per esempio l’idea che in Cina si mangino solo cibi fritti e riso. Un po’ come l’Italia, la Cina ha invece una tradizione gastronomica articolata su base regionale e che gli stessi cinesi amano suddividere in quattro grandi scuole (Cantonese, Shandong, Jiangsu, Sichuan) e descrivere come “a Sud dolce, a Nord salato, a Est fresco a Ovest piccante”. Se i nostri primi contatti con la cucina cinese sono stati con quella cantonese è solo perché i primi immigrati arrivavano proprio da quella regione nel Sud della Cina. Non dobbiamo pensare che 1,3 miliardi di persone distribuite su una superficie di quasi dieci milioni di chilometri quadrati mangino solo riso, pollo alle mandorle e chissà che altro.

Marta Valentini illustra le scuole regionali della cucina cinese: sono più di quattro, alcune anche espressione di minoranze etniche

Marta Valentini illustra le scuole regionali della cucina cinese: sono più di quattro, alcune anche espressione di minoranze etniche.

Tutto il mondo è paese
Le distinzioni tra le varie cucine cinesi dipendono dalla vastità del territorio: basti anche solo considerare che le risaie sono concentrate nella parte Sud del Paese, mentre al Nord prevale la coltivazione del grano. Il filo conduttore della cultura gastronomica rimane sempre legato alla stagionalità dei prodotti, alla loro freschezza, alle cotture brevi e all’importanza del convivio (soprattutto in occasione di festività importanti come il cosiddetto “Capodanno cinese”, la festa di Primavera che segna l’inizio del calendario lunare e paragonabile al nostro Natale). Non sono concetti che ci sono propriamente estranei, vero? Tuttavia le differenze con la nostra tradizione gastronomica esistono, e dipendono soprattutto dalle diverse materie prime disponibili e dagli ingredienti principali che in una cucina cinese non mancano mai. I presenti all’incontro hanno avuto modo di annusarli e maneggiarli dal vivo: la salsa di soia (da usare per cucinare, non per condire!), l’olio di sesamo (un filo a crudo per profumare, non per cucinare o friggere, perché in quest’ultimo caso viene utilizzato l’olio di semi), la salsa di ostriche, l’aglio, lo zenzero, il famigerato glutammato, la miscela di cinque spezie (cannella, anice stellato, cumino, chiodi di garofano, pepe di Sichuan). Per non parlare poi del fatto che in Cina esiste una varietà sterminata di verdure che a noi sono sconosciute (prendete per esempio le kōngxīncài di cui vi ho parlato di recente).
Un altro aspetto importante che la dottoressa Valentini ha evidenziato in chiusura dell’incontro e che rende unica la cucina cinese, è il suo rapporto stretto con la medicina. Se la salute dipende dall’equilibrio tra Yin e Yang, nel cibo questa armonia viene rispecchiata cercando di non avere gusti predominanti. Inoltre è parte integrante del bagaglio culturale cinese il conoscere quali cibi sia meglio mangiare o non mangiare in estate o in inverno, sempre per assecondare il rapporto tra Yin e Yang.

E per chiudere… le “raviòllole”, alcune “pillole raviolose” della serata!
Tra le tante cose interessanti emerse dall’incontro, ci sono alcuni aneddoti che dovete proprio sapere per conoscere un po’ di più la Cina.

  • Mai regalare PERE a una coppia, perché in cinese si chiamano lízi 梨子 ma la pronuncia ha lo stesso suono del verbo líkāi 离开, che significa “andar via” e quindi è un po’ come augurare loro la separazione.
  • Non mangiare cibo di color bianco durante le festività (per esempio il tofu), perché il bianco è il colore del lutto.
  • Mai infilare le bacchette nel cibo, è un gesto orribile. Questo perché a vederli ricordano i bastoncini di incenso messi a bruciare per le cerimonie funebri.
  • Per augurare soldi, tanti soldi, soldi a volontà, si usa mangiare mandarini (jīnjú 金橘, perché jīn 金 significa anche “oro”), ravioli (jiǎozi, 饺子 hanno la forma dei lingotti d’oro cinesi).
  • Mai spezzare gli spaghetti, sia in cottura sia quando li si mangia: vista la loro forma simboleggiano l’augurio di una lunga vita!
  • In una cucina cinese non mancano mai: la mannaia, il wok, un enorme tagliere in legno e… il fuoco: le cotture infatti sono brevi e ad altissime temperature!

Il prossimo appuntamento organizzato dall’Istituto Confucio nel ciclo di incontri “Aperitivo per Expo” sarà venerdì 30 maggio in Via Paolo Sarpi,60 da Presso. Intitolato “Oltre i fornelli, la strada”, l’incontro vedrà la partecipazione dell’architetto Francesco Collotti dell’Università di Firenze. Sarà affrontato l’argomento degli spazi nelle città cinesi e del cibo di strada, con uno showcooking che illustrerà come preparare i baozi, 包子, i panini ripieni tipici cinesi.

Kongxincai: verdura, tu sei senza cuore!

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Un mazzo di verdure senza cuore, 2,50 euro. Non economiche, qui in Italia. Le ho trovate in busta preconfezionata e il paese di produzione è la Thailandia.

Un mazzo di verdure senza cuore, 2,50 euro. Non economiche, qui in Italia. Le ho trovate fresche in busta preconfezionata e il paese di produzione è la Thailandia.

Tra le verdure più consumate in Asia (Cina e Sud Est asiatico) sono stata attratta dalle “verdure senza cuore” segnalatemi da Giulia, una ragazza di Roma che studia cinese con me. È incredibile accorgersi di quante cose possano passare sotto i nostri occhi senza vederle, perlomeno finché qualcuno non ce le fa notare. Da quel momento in poi, ve lo assicuro, escono dalle fottute pareti.
In particolare queste verdurine non solo sono servite in moltissimi ristoranti cinesi, ma sono anche vendute fresche nel reparto ortaggi degli alimentari etnici: basta aprire gli occhi, attivare l’hashtag mentale #kongxincai, e i misteri della cucina orientale, dei suoi “strani” ingredienti, si rivelano ai nostri occhi nella loro alimentare semplicità.

Partiamo dal nome: “verdura senza cuore” è la traduzione letterale di 空心菜, kōngxīncài (“kōng” è un aggettivo/verbo e significa vuoto/svuotare, “xīn” è il cuore, “cài” significa verdura). Le foglie di questo ortaggio hanno un fusto cavo, un po’ come quello degli spinaci. Parlo di spinaci non a caso, perché gli americani chiamano queste verdure “water spinach” ossia “spinacio d’acqua” (c’è anche chi lo chiama “swamp cabbage”, confondendolo però con altre cose). Per amor di completezza filologica, segnalo che  in cinese il nome esatto è 蕹菜, wèngcài, mentre per i giapponesi è 朝顔菜, asagaona. 

Da un interessante e dettagliato documento pubblicato dal Departement of Environment and Primary Industries dello stato australiano di Victoria* scopriamo che il nome ufficiale della pianta è Ipomea aquatica e fa parte della famiglia delle Convolvulaceae: se girate per prati o vivai, probabilmente conoscerete delle specie di ipomea utilizzate come piante ornamentali, perché hanno un grazioso fiore a forma di campanella. La specie aquatica è tipica delle zone tropicali, ha bisogno di caldo, cresce in acqua tutto l’anno ed è commestibile. Nonostante il nome inglese “water spinach”, la verdurina senza cuore dal punto di vista classificativo non è tanto imparentata con gli spinaci nostrani ma con la patata dolce (stessa famiglia delle Convolvulaceae). A seconda della varietà, le foglie possono essere più o meno allungate, comunque l’aspetto è meglio spiegarlo con una foto.

Guardate che meraviglia di verdura sto per cucinare: io ho scelto di strappare le foglie dal gambo e cucinarle separatamente, ma i tempi di cottura sono rapidi.

Guardate che meraviglia di verdura sto per cucinare: io ho scelto di strappare le foglie dal gambo e cucinarle separatamente, i tempi di cottura sono rapidi.

Il sapore è dolce, forte, e non ha nulla a che vedere con quello delle coste (non è aspro). Vi consiglio di provarle almeno una volta perché capita di rado di trovare verdure di questo tipo dal sapore marcato e non amaro. Mentre la foglia cotta si ammorbidisce, la consistenza del gambo cotto non è fibrosa e soprattutto è… (scusate, mi tocca dire una parola che ultimamente mi dà parecchio fastidio a a causa dell’abuso che se ne fa in cucina e nei luoghi in cui si straparla di cibo) CROCCANTE. Ebbene sì: se mai vi troverete a un VERNISSAGGIO con catering orientale, potrete ben dire “Apprezzo la croccantezza di questa kōngxīncài”, badando però di pronunciare in modo perfetto i toni, altrimenti farete solo la figura dei parvenu.

Forza, ai fornelli!
Se invece ho solleticato la vostra curiosità, e la prossima volta che andrete in un alimentari etnico finalmente presterete attenzione alle buste di verdurine senza cuore e deciderete di acquistarle, ecco come le ho preparate io: alla cantonese, ossia spadellate con un po’ d’olio e pochissima acqua, un pizzico di sale e un cicinin (ma poco eh!!) di brodo vegetale.

Per cucinare i gambi e le foglie bastano un filo d'olio e poca acqua (tanto ne cacciano fuori anche loro). Sale e brodo vegetale aggiungeranno un po' più di sapidità a una verdura che ha un gusto molto pronunciato e gradevole.

Per cucinare i gambi e le foglie bastano un filo d’olio e poca acqua (tanto ne cacciano fuori anche loro). Sale e brodo vegetale aggiungeranno un po’ più di sapidità a una verdura che ha un gusto molto pronunciato e gradevole.

Per curare le verdure ho avuto l’accortezza di separare le foglie dai gambi. Le foglie le ho tenute intere, i gambi li ho tagliati in tre, creando dei bastoncini della lunghezza di circa 10 centimetri. Ho pulito e cotto in padella separatamente foglie e gambi. Per le foglie ci vogliono tre minuti, giusto il tempo che si mollino. Per i gambi circa cinque minuti: devono rimanere sodi e croccanti, vi accorgerete subito quando sono pronti, perché appassiscono un po’ senza perdere turgore. Altrimenti potete prepararle con dell’aglio e del peperonicino 😀

Lasciatevi incuriosire, perché se amate le verdure, le kōngxīncài sono proprio una scoperta che vi darà soddisfazione: e se andate al ristorante cinese provate a chiederle o a cercare nel menu il loro nome! Spiate sempre i tavoli con persone cinesi, variate le vostre richieste, non fossilizzatevi con il solito pollo alle mandorle!

Foto trafugata al ristorante cinese quando ho mangiato per la prima volta le verdurine senza cuore. INSTAGRAMMAMI TUTTA!

Foto scattata fugacemente al ristorante cinese quando ho mangiato per la prima volta le verdurine senza cuore. INSTAGRAMMAMI TUTTA!

 

*(sta all’estremità Sud del continente, la capitale è Melbourne)

Le Raviollole di RuMi Mama #2: la citronella si mangia!

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Carissimi. Se ogni tanto vi cade l’occhio su uno dei miliardissimi programmi di cucina, avrete sentito qualche chef professionista o wannabe, parlare con un tocco esterofilia di LEMON GRASS. Bene, per il volgo che parla in italiano, LEMON GRASS è la CITRONELLA, parola che, se non erro, qui da noi è famosa solo per le candele, gli olii e gli spray anti-zanzara. Si tratta invece di un’erba molto usata nella cucina asiatica (indiana e thai), e io l’ho conosciuta perché è un ingrediente della zuppa Tom Ka Kai (la zuppa di pollo e galanga, ricordate? beh ho provata a farla due volte ed è venuta una schifezza che era meglio non documentare qui su questo blog di successi, sorrisi e canzoni). Ho acquistato qualche gambo di citronella qualche mese fa proprio nel reparto ortaggi freschi di un supermercato etnico: erano puliti e imbustati (sono lunghi circa 25-30 centimetri e il diametro è di circa 2 centimetri). La cosa che mi ha lasciata più stupita è che la citronella ha un profumo fortissimo e proprio identico, anche come intensità, a quello delle candele ammazza-zanzare. Al taglio il fusto di citronella è molto duro e fibroso, e non è possibile tagliarlo ad anellini o a listarelle come il porro (la forma è decisamente somigliante, anche se è molto più piccolo, anche più del cipollotto): non si ammorbidisce, né si scioglie in cottura. Tra gli impieghi migliori che ne ho trovato: infilare quattro/cinque gambi puliti dentro un pollo da fare arrosto (dona un aroma molto piacevole); tagliare a fettine SOTTILISSIME, VELATE da mettere in zuppe di pollo; TRITARE e mettere nel fondo di cottura di verdure o carni spadellate con verdure (ne ho anche messa un po’ in alcune polpettine che ho preparato con le erbette… bona!); CENTRIFUGATA nei succhi/aperitivi che mi faccio ogni tanto.

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La citronella può essere coltivata in giardini, terrazzi e balconi. Questa picciridda è sul mio balcone

La citronella può essere coltivata in giardini, terrazzi e balconi. Questa picciridda è sul mio balcone (a sinistra la base del goji).

Poi, siccome mi sta prendendo il trip delle piante aromatiche, mi sono pure comprata una pianta di citronella da tenere in balcone. Si tratta di una erbacea perenne, quindi non è che mi morirà ai primi freddi: porta delle foglie lunghe, sottili, ruvide e cadenti, i gambi si sviluppano con germogli alla base del fusto principale e vanno staccati, ripuliti e usati in cucina così come sono 🙂 Non ho idea se da sola, per il solo fatto di stare sul mio balcone, sarà in grado di scacciare le zanzare, ma tanto lì preferisco darmi ALLA CHIMICA e al colpo di ciabatta. Intanto ricordatevi le parole chiave della citronella: i fighella la chiamano lemon grass, si usa nella cucina thai e indiana, ha la scorza durissima, meglio tritarla fine, la pianta si trova in giro ed è fatta a cespuglio con foglie cadenti.

Le Raviollole di RuMi Mama #1 – Il DIM SUM misterioso

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Con questo post inauguro la rubrica e il tag “Raviollole di Rumi Mama“, che sarebbe un geniale (me lo dico da sola) MASH-UP tra le parole “ravioli” e “pillole”. Sostanzialmente una rubrica rapida, con informazioni curiose e non necessariamente omnicomprensive riguardo la cucina, gli ingredienti e i prodotti etnici. Poiché non ho mai nascosto la mia predilezione per la cucina orientale, non potevo che pensare al RAVIOLO come la versione indorata e gustosa della PILLOLA di saggezza: una pallotta di pasta ripiena di ogni ben di dio, bollente di vapore, cura per la fame vorace, comfort food per eccellenza. Salutate quindi la prima Raviollola di RuMi Mama, ovviamente dedicata ai RAVIOLI.

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Avete mai sentito parlare dei DIM SUM? Se siete stati a mangiare in una qualche Chinatown all’estero sicuramente sì. Qui in Italia, perlomeno a Milano dove c’è l’avant garde italiana dei magnoni (perché noi l’anno prossimo nutriremo il Pianeta), la parola ha iniziato ad apparire e ad avere un certo rilievo negli ultimi tempi, un po’ perché un locale ha deciso di chiamarsi così, un po’ perché più in generale alcuni ristoranti cinesi finalmente si stanno differenziando, stanno variegando la proposta gastronomica e non si limitano a scongelare vasche di pollo alle mandorle fatto in serie.

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DIM SUM (leggi DIM SAM) è la pronuncia cantonese della parola DIANXIN (diǎnxin 点心) che in cinese significa “dolcetto”, “assaggino” (in tutta la Cina le parole sono scritte uguali ma hanno pronunce diverse: quella “ufficiale” è basata sul mandarino/pechinese). Comunque con DIM SUM si intende una cosa deliziosa e piccina da mangiare in un boccone e, per estensione, indica quei ristoranti in cui ti siedi a tavola e ti vengono servite montagne di raviolini e piattini vari, uno diverso dall’altro, anche e soprattutto a “fantasia dello chef”. Già, non i soliti “raviolo di carne-verdure-gamberi al vapore” e “involtino primavera” del cinese a domicilio chiamato nelle fredde sere d’inverno. DIM SUM = Sabba di ravioli. UNA RAVIOLATA!
Per non confondervi nelle definizioni vi raccomando di ricordare le basi: in cinese “raviolo” si dice JIAOZI (ufficialmente jiǎozi 饺子, in cantonese li chiamano GAAU, in inglese sono nominati “dumpling” e in giapponese sono scritti con gli stessi caratteri e chiamati GYOZA). Segue un “A morte!” per chi dice che la cucina cinese “è tutta uguale”, perché esiste una gran varietà di preparazioni sia per i ripieni, per la pasta, per i metodi di cottura (al vapore, fritti, brasati…) e a seconda della provenienza regionale. Ovviamente anche la nomenclatura è molto dettagliata e va oltre il semplice termine “jiaozi”: un po’ come noi non ci sogneremmo mai di indicare semplicisticamente come “ravioli” i tortelli di zucca, gli agnolotti, i pansotti, i tortellini e così via. Ed è anche il motivo per cui, a volte, quando ordinate i ravioli al ristorante cinese, può capitare che vi arrivino ravioli con forma, ripieno e impasti diverso “dal solito”.

La mitica amica Daniela Clerici, leggendo questo post, mi ha ricordatola scena del bellissimo “Working girl” (in Italia “Una donna in carriera” 1988) dove Melanie Griffith, nei panni dell’intraprendente segretaria Tess McGill, serve ravioli cinesi alla festa aziendale. Ecco il trailer del film: al secondo 13 si vede la scena incriminata 😀


Piaciuta la Raviollola #1? 😀 Son sicura di avervi incuriositi ancora di più 😀 Commentate qui sotto o sulla Pagina di Facebook di RuMi Mama!