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~ I segreti e le ricette della cucina etnica

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Archivi della categoria: ricette

Dorayaki: i dolci gong giapponesi

08 martedì Dic 2015

Posted by RuMi Mama in Bibliografia, Dolci, ricette

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dorayaki, giappone

Parlo di dorayaki perché il 10 dicembre arriva nelle sale cinematografiche italiane il film “Le ricette della Signora Toku”, dove si parla anche di questi dolcetti: per guardare il trailer del film visitate la pagina Facebook del film.

I dorayaki ricordano la forma del gong, ed è per questo che si chiamano così.

I dorayaki ricordano la forma del gong, ed è per questo che si chiamano così.

Il bibbione Japanese Cooking di Shizuo Tsuji spiega che i dorayaki sono i dolcetti giapponesi più popolari, e che “dora” significa letteralmente “gong“. E tra due gong-dora, ossia due pancake, è racchiuso un ripieno di pasta di fagioli azuki in pezzi. I dorayaki vengono spesso preparati in strada su una serie di stampi che li rendono perfettamente circolari e ben dorati (a farli in casa, come vedremo, è un po’ più difficile, ma il risultato è ottimo lo stesso).
La ricetta del Maestro Tsuji è molto simile a quella che vi spiego in questo post e nel video: come ingredienti per i pancake usa uova, farina, lievito per dolci, zucchero e mizuame, ossia lo sciroppo di mais. Per il ripieno, invece, crea una pasta grossolana di fagioli azuki. Io ho scelto di ridurla a purea con il frullatore, ma se volete potete fare i fagioli a pezzettoni schiacciandoli pazientemente con un cucchiaio di legno fino ad ottenere la consistenza preferita. L’importante è che comunque i fagioli siano ben scolati e che la pasta risulti bella densa.

La ricetta che vi do è a volumi: se utilizzate come unità di misura il dosatore tazza standard (che vi consiglio di tenere in casa), otterrete 5-6 dorayaki completi dal diametro di 8 centimetri.

**********INGREDIENTI***********

La pastella dei dorayaki può essere impiegata anche per fare i pancake

La pastella dei dorayaki può essere impiegata anche per fare i pancake all’americana.

Per i pancake
3 uova
1 tazza di farina
2/3 di una tazza di zucchero
2 cucchiai di acqua
Mezzo cucchiaio di lievito per dolci

Per il ripieno
1 tazza di fagioli azuki al naturale (si trovano facilmente nei negozi bio e in quelli etnici)
8 tazze di acqua (4+4)
1/3 di tazza di zucchero

Il procedimento della ricetta è spiegata nel video, qui vi lascio qualche annotazione: iniziate col preparare la salsa del ripieno, perché dovrà stare sul fornello più di un’ora e poi si dovrà raffreddare in frigo. La pastella dei pancake è facilissima da preparare, non crea problemi particolari di grumi, però tenete a portta di mano una frusta per mescolare bene gli ingredienti. La cosa più complicata è mantenere una forma regolare per ciascun pancake: io mi sono aiutata con un coppapasta rotondo da 8 centimetri di diametro, però non è che aiuti ‘sto gran che, perché va rimosso subito (altrimenti la pastella si attacca ai bordi) e conseguentemente la pastella si allarga un po’. Non preoccupatevi se il pancake si scurisce, però cercate di non bruciarlo. Nel video e nelle foto vedete che la superficie è leggermente marroncina: questo sicuramente non rende i miei dorayaki dei “dolci gong dorati” ma il gusto non ne ha risentito perché non erano per nulla bruciati.
Infine, quando ho composto il “panino”, ho ritagliato i bordi con il solito coppapasta, giusto per farli ben tondi.
Il risultato è stato apprezzato anche da Claudio che, oltre a essere un golosastro di dolci, mi ha anche dato una mano preziosa per creare le inquadrature. Grazie :*

Rigorosamente casalinghi, provate anche voi a fare i dorayaki, non è difficile!

Rigorosamente imperfetti e casalinghi! Provate anche voi a fare i dorayaki, non è difficile!

 

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Raviollola #4: le basi per conoscere la cucina giapponese

04 giovedì Giu 2015

Posted by RuMi Mama in Bibliografia, Raviollole, ricette

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Tag

cucina giapponese, giappone, raviollole, ricette, Tsuji Shizuo

Questa è una delle bibbie sulla cucina giapponese.

Questa è una delle bibbie sulla cucina giapponese.

In molti testi dedicati alla cucina giapponese ho trovato riferimenti a “Japanese Cooking: a simple art” scritto da Tsuji Shizuo e pubblicato da Kodansha International nel 1980 (non trovo traccia di una versione italiana). Richard Hosking, autore del “Dictionary of japanese food” lo raccomanda nella propria bibliografia come “un libro straordinario, non solo per la gran varietà di ricette affidabili e fondamentali, ma anche per l’enorme quantità di informazioni utili e accurate riguardo gli ingredienti utilizzati nella cucina giapponese“.

L’autore Tsuji Shizuo, nato nel 1933 e morto nel 1993, è stato un laureato a Tokyo in letteratura francese, ha viaggiato e vissuto in Europa ed è stato fondatore della Ecole Technique Hotelier Tsuji di Osaka. In lui si sono fuse le abilità di cuoco, scrittore e imprenditore. In questo articolo pubblicato nel 1993 sull’Indipendent e scritto in occasione della sua morte, potete approfondire il profilo di questo giapponese definito nel lontano 1984 Chief Foodie of Japan.

Senza spingervi all’acquisto di questo tomo in inglese di più di 500 pagine (a questa cosa geek ci penso io) vi consiglio di andare su Google Libri, dove è possibile leggere l’anteprima di alcune pagine. Ho trovato spettacolari le tre pagine e mezza (da 248 in poi) che spiegano come scegliere, pulire e preparare il polpo per la cottura, ma gli spunti sono evidentemente molti non solo per cucinare, ma anche per capire meglio la tradizione gastronomica giapponese.

Era da tempo che ronzavo attorno al libro di Tsuji Shizuo e oggi l’ordinato, perché questo testo non può mancare nella mia (sempre più rifornita) biblioteca personale di cucina orientale.

La passione chiama e RuMi Mama risponde, sicura di non rimanere delusa 🙂

Tamagoyaki, la frittata giappa arrotolata

29 venerdì Mag 2015

Posted by RuMi Mama in Da cucinare, ricette

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Tag

cirashi, dashi, giappone, mirin, rumimama, Tamagoyaki

Che dir, ci ho preso gusto coi filmatini in time lapse. Questa volta vi mostro la preparazione del tamagoyaki, la frittata arrotolata alla giapponese, e vi incoraggio a provare anche voi: seguite i miei consigli e, se qualcosa va storto, correggete la mira al secondo o terzo tentativo. Non è difficile e non correte neanche il rischio di sprecare materie prime troppo costose.

Dal mioa rchivio personale :) Tanti anni fa, al Shokuji Tei (piazza Bande Nere, Milano), mi servirono un cirashi con sopra il tamagoyaki tagliato e riposizionato a forma di cuore.

Dal mio archivio personale 🙂 Tanti anni fa, al Shokuji Tei (piazza Bande Nere, Milano), mi servirono un cirashi con sopra il tamagoyaki tagliato sottile e riposizionato a forma di cuore.

Qui in Italia il tamagoyaki viene preparato nei ristoranti giapponesi (in quelli veri e in quelli cino-giappo un po’ raffinati): ne potete trovare delle fettine sopra alla scodella di cirashi, oppure nel sushi misto, sopra a una polpetta di riso tenuto fermo da un nastro di alga nori. Può anche essere servito da solo, con dei germogli di soia, daikon tritato, verdurine… qualsiasi cosa. Si tratta di una pietanza informale, ha il sapore della frittata con… quel tocco giapponese in più che solo ingredienti come dashi e mirin riescono a dare.

 

 

 

Padella per tamagoyaki acquistata da Muji nel 2008. A un certo punto ha perso l'antiaderenza e son stati guai.

Padella per tamagoyaki acquistata da Muji nel 2008. A un certo punto ha perso l’antiaderenza e son stati guai.

È da tempo che mi cimento con risultati alterni in questa preparazione perché, tanti anni fa, da Muji ho trovato l’apposita padellina (non è altro che una normale padella a base rettangolare con i bordi alti). Con questo strumento ho avuto un rapporto molto conflittuale, ve ne parlo dopo nel capitolo dedicato all’antiaderenza…
So già che vi domanderete se il tamagoyaki si può fare in una padella tonda normale con i bordi inclinati: io direi proprio di NO. Potete magari usarla per fare qualche esperimento, ma se volete ottenere la tipica forma a parallelepipedo è meglio usare la padella apposta. Se volete fare un tamagoyaki IMMENSO DA 12-15 UOVA, potreste anche utilizzare una teglia da lasagna antiaderente, vedete voi come vi trovate a maneggiarla sulla fiamma senza il manico 😀 Intanto vado dritta al sodo con la ricetta che ho usato per il video.

***RICETTA TAMAGOYAKI***

3 uova
1 cucchiaio abbondante di mirin
(ci andrebbe anche 1 cucchiaino di sake ce l’avete, io non ce l’avevo, ho messo un po’ più di mirin e dashi)
Mezzo cucchiaino di zucchero
Un pizzichino di sale
1 cucchiaino abbondante di salsa di soia
70 cl di brodo dashi molto saporito
Olio di semi per ungere la padella


Come vedete si tratta di spargere un sottile strato di miscela sul fondo della padella e arrotolarlo su se stesso quando non è ancora cotto del tutto. Se la vostra è una buona padella e vi fidate della sua antiaderenza, potete evitare di ungere il fondo ogni volta che versate un nuovo strato di miscela: l’importante è che alziate un attimo il rotolo per farci scivolare il liquido sotto.

Grande come quella di Muji, la mia nuova padella per il tamagoyaki è antiaderente.

Grande come quella di Muji, la mia nuova padella per il tamagoyaki è antiaderente.

La prima parola d’ordine per realizzare un buon tamagoyaki è ANTIADERENZA
La padellina di Muji non aveva il fondo antiaderente e si attaccava tutto in ZERO SECONDI : trattandosi di una padella in ferro andrebbe trattata come le pentole di ghisa e i wok (la si cosparge con uno strato di grasso, la si sbatte in forno per fissarlo, la si usa e poi la si lava a mano senza rimuovere la patina, lasciandola lì a proteggere il fondo). Non amando molto questa procedura (lavo tutto in lavastoviglie, è una mania “di famiglia”) ho deciso di acquistare una nuova padella rettangolare con fondo antiaderente. Questo mi evita anche di ungere troppo la padella sia per il trattamento protettivo (in inglese lo chiamano “seasoning”) sia durante la preparazione.
[Ecco il link di affiliazione Amazon per la padellina che ho acquistato. Se la volete prendere anche voi, vi avviso che se fate clic su questo link RuMiMama riceve una piccola percentuale sulla vendita 🙂 Ibili 411218 Stufa per Tamagoyaki]

La seconda parola d’ordine per realizzare un buon tamagoyaki è LIQUIDITÀ
Non mi riferisco alla liquidità di denaro, si tratta di ingredienti poveri, ma di liquidità della miscela di uova, mirin e brodo dashi. Bisogna trovare il giusto rapporto tra le uova e gli altri liquidi, in modo da riuscire a versare strati sottili di miscela, in modo che la base della frittata a contatto con la padella si solidifichi rapidamente però si mantenga umida. Se ci sono sacche di liquido non preoccupatevi, vanno benissimo. Le dosi che ho indicato sopra sono quindi indicative e calcolate per uova grandi (state un po’ più indietro se usate uova più piccole e comunque sentitevi liberi di aggiungere qualche cucchiaiata di dashi in più)

Fermo immagine di momento critico durante il video: se accade anche a voi, andate avanti e arrotolate.

Fermo immagine di momento critico durante il video: se accade anche a voi, andate avanti e continuate ad arrotolare che non cambia proprio nulla…

La terza parola d’ordine è SPREGIUDICATEZZA NEL RIBALTARE LA FRITTATA
Vedrete tanti filmati con dei giapponesi abilissimi nel girare il tamagoyaki con le bacchette (per esempio questo video): bene cari, se volete provare con le bacchette IN BOCCA AL LUPO E CIAONE. Non so voi, ma anche se sono capace di mangiare con le bacchette (e verso la fine del pasto spesso ho dei crampi alla mano) di cucinarci non se ne parla proprio. Per rigirare il tamagoyaki usate pure una paletta, infilatela sotto al rotolo, se riuscite date un colpetto di polso per girarlo (io AHAHAHAHAHAHA proprio zero) non abbiate paura di piegoline, strappi, mollezze, buchi. L’importante è riuscire ad arrotolare e compattare, arrotolare e compattare… evitate solo che lo spessore della frittata sia irregolare.

La quarta parola d’ordine è NON BRUCIARE
Tenete la padella calda ma sopra a una fiamma non troppo aggressiva, perché l’uovo deve rimanere compatto e giallo, non deve fare nessuna crosticina marrone altrimenti il tamagoyaki diventa brutto, dalla consistenza irregolare e sembra una Girella Motta (con le bruciature al posto del cacao).

La quinta e ultima parola d’ordine è LASCIARE RAFFREDDARE
Appena avete finito la miscela di uova e avete arrotolato l’ultimo strato, spegnete il fornello e, con una paletta di legno, spingete tutte le facce del tamagoyaki contro i bordi della padella: finché è caldo dovete conferirgli il più possibile una forma di parallelepipedo (questa operazione la vedete bene verso la fine del mio video). Dopo di che appoggiate il tamagoyaki su una tovaglietta di vimini e lasciatelo raffreddare.
Il tamagoyaki va mangiato a temperatura ambiente!

Il tamagoyaki del video è stato mangiato dopo due ore di raffreddamento e ha contribuito - nella misura di tre uova sbafate in cinque minuti - alla razione quindicinale di uova della sottoscritta.

Il tamagoyaki del video è stato mangiato dopo due ore di raffreddamento e ha esaurito – con la misura di tre uova sbafate in cinque minuti – la quantità di uova che di solito la sottoscritta si mangia in 7-10 giorni.

Takoyaki fatti in casa: SI.PUÒ.FARE!

25 lunedì Mag 2015

Posted by RuMi Mama in Da cucinare, ricette, Street food

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giappone, japan, osaka, polpette di polpo, polpo, rumi mama, Street food, takoyaki

Come raccontavo qualche giorno fa, mi sono attrezzata per preparare i takoyaki, le squisite polpette di polpo di Osaka. Raccogliere gli ingredienti non è stata una passeggiata e avevo qualche timore per la realizzazione tecnica: invece è andato tutto così bene che sono proprio contenta. Non solo mi sono divertita ma erano squisiti e perfetti, uguali a quelli giapponesi <3.  A dirla tutta è proceduto in modo molto meno complicato di quanto potesse sembrare: non è una cosa per iniziati, chiunque può farli, basta aver voglia di sbattersi un po’. E poi guardateli… guardate come sono fighi! 😀

Primo round di takoyaki, già conditi con il topping necessario e pronti per essere mangiati ancora bollenti!

Primo round di takoyaki, già conditi con il topping necessario e pronti per essere mangiati ancora bollenti!

La padellina per i takoyaki vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

La padellina per i takoyaki vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

Gli ingredienti per i takoyaki non sono proprio introvabili, però qui a Milano sono dovuta andare in due negozi per completare la caccia al tesoro: se avete la possibilità, vi consiglio di andare diretti in un negozio specializzato in alimenti giapponesi, probabilmente riuscite a portar a casa il malloppo in un colpo solo.

Siccome non amo piazzare sul blog le ricette senza spiegare gli ingredienti, prima di tutto vi descrivo con cosa si fanno e condiscono i takoyaki, e se non avete voglia di leggere l’approfondimento, scorrete sotto all’elenco degli ingredienti, perché poi trovate pure il primo video-girato-nella-mia-cucina!!!)

I takoyaki sono sostanzialmente delle (fragranti fuori, e morbide dentro) palline di pastella ripiene di pezzetti di polpo bollito, erba cipollina (meglio il cipollotto se lo trovate buono, purtroppo quel che ho trovato io era orrido e ho ripiegato sulla cipollina) e beni shoga. A cottura terminata vengono conditi con alga aonori, maionese giapponese, salsa okonomiyaki e katsuobushi.

Eccallà, questa parte subito con le parole difficili, MO’ COSA È ‘STO BENI SHOGA? CHE SCHIFO LE ALGHE! E SE VADO IN UN NEGOZIO A CHIEDERE IL KATSUOBUSHI NON È CHE MI SBATTONO IN UN ANGOLO E MI FANNO LE COSE BRUTTE?

CALMA. SANGUE FREDDO. NESSUNA PAURA. SONO INGREDIENTI STRANIERI, MA VENGONO IN PACE PER DELIZIARE IL NOSTRO PALATO E GLI OCCHI.

A sinistra il beni shoga per i takoyaki. Non confondetelo con il gari shoga (quello a destra) che viene servito accanto al sushi.

A sinistra il beni shoga per i takoyaki. Non confondetelo con il gari shoga (quello a destra) che viene servito accanto al sushi.

Il beni shoga  è zenzero tagliato a julienne e marinato nell’umezu, una soluzione a base di foglie di perilla rossa. Da questa marinatura le striscioline di zenzero vengono fuori rosse, con un sapore molto forte che però nella cottura si disperde un po’ e soprattutto si accompagna molto bene col polpo. Non confondetelo con lo zenzero marinato che di solito viene servito assieme al sushi (il gari shoga): sono due marinature diverse, il gari shoga è pure tagliato a lamelle, e il gusto non è per nulla simile perché la marinatura di quest’ultimo è a base di zucchero. Non che il beni shoga sia facile da trovare, ma viene comunque importato: io l’ho trovato in una bustina, nel banco frigo di un alimentari dedicato al cibo giapponese/coreano. Costo 2,5 euro.

 

 

A sinistra la confezione di maionese giapponese, a destra quella della salsa okonomiyaki

A sinistra la confezione di maionese giapponese, a destra quella della salsa okonomiyaki

Per il topping dei takoyaki caldi c’è molto da sovrapporre: prima vanno spennellati con la salsa okonomiyaki. Questa salsa può anche esser preparata in casa, certochesì, ma per evitare sbattimenti e inutili complicazioni l’ho comprata già pronta in barattolo. Poi un un altro negozio ho trovato della stessa marca la salsa specifica per i takoyaki: gli ingredienti sono praticamente gli stessi, si tratta di una buona salsa densa e di colore scuro (tipo la BBQ). Visto che si parla dell’omonima salsa, non posso non ricordarvi che gli okonomiyaki sono un altro cibo tipico giapponese: delle frittatone porcone a base di TUTTO, per esempio carne, pesce, verdure, spaghetti, maionese, salsa okonomiyaki, katsuobushi. TUTTO HO DETTO. 500 grammi di salsa 5,50 euro. (lo so è tanto, ma perlomeno so che la userò tutta).

Un discorso a parte va fatto per la mitologica/mitica maionese giapponese, che effettivamente ha un gusto e una consistenza diversi rispetto alle maio industriali che siamo abituati a mangiare qui in Italia o anche in altri paesi occidentali. Non che gli ingredienti siano particolarmente diversi: aceto, uova, olio sono il punto di contatto. La differenza, a quanto pare, la fa il succo di yuzu, un agrume orientale che a vista pare un mandarino con la buccia del limone. Non l’ho mai assaggiato ma leggo che il sapore del succo è una mezza via tra il limone e l’arancia. Poiché la maionese giapponese acquistata in barattolo è anche quella di produzione industriale, ritengo che sapore e consistenza dipendano da dosaggi diversi degli ingredienti. Se mai avete fatto la maionese in casa saprete che basta poco per rendere più spessa o più liquida la maio e anche per farle cambiare sapore. Preparatevi: costa una sassata ed è difficilotta da trovare. 500 grammi poco meno di 6 euro. Potete sostituirla con la maionese arricchita con yogurt, che è un po’ più delicata, tuttavia se il vostro negozio di fiducia la tiene, non perdete l’occasione di acquistarla almeno una volta, perché è squisita in qualsiasi contesto in cui la maionese abbia un senso (ossia ovunque. METTEREI LA MAIONESE OVUNQUE).

Un po' di katsuobushi. L'odore di pesce è molto forte.

Un po’ di katsuobushi. L’odore di pesce è molto forte.

Il katsuobushi magari l’avete già sentito nominare in ricette anglofone col nome di “bonito flakes“, ossia “fiocchi di bonito“. Sono scaglie sottilissime di pesce secco (di solito tonnetto, sgombro…). Taglio corto perché anche il katsuobushi arriva da una preparazione molto particolare, ha un forte sapore di pesce (embè è pesce) e ne ho già accennato su Rumi Mama perché è uno degli ingredienti di base del brodo dashi. La particolarità di questi fiocchi è che sono così leggeri che, quando vengono messi sopra a una pietanza calda, iniziano a danzare, mossi dal vapore. A qualcuno potrebbero anche fare impressione perché sembrano qualcosa di vivo, ma vi assicuro che è solo pesce secco e non c’è bisogno di scomodare Voyager. Anche il katsuobushi è costosissimo: ho trovata busta enorme da 30-40 grammi a più di 10 euro e non l’ho presa perché è una quantità enorme di pesce che rischio di buttare. Fortunatamente in un altro negozio ne ho presa una da 15 grammi a metà prezzo, perché prossima alla scadenza: 2,60 euro!

Una fotina anche per le alghe secche, anche se si vedono meglio nellas foto dei takoyaki fatti e finiti.

Una fotina anche per le alghe secche, anche se si vedono meglio nellas foto dei takoyaki fatti e finiti.

Completo la lista degli ingredienti strani con l’alga aonori, un tipico topping giapponese da spolverare sopra al cibo e che va messo anche sopra ai takoyaki. Si tratta di alga nori secca che invece di essere presentata in fogli viene polverizzata, tutto qui. È la stessa alga che compone i fogli  con cui si avvolgono i rotolini di sushi, i maki, i temaki e compagnia cantante. Tanto che, se lo preferite, potete prendere un foglio di alga nori e tagliuzzarlo.
Io ho comprato un prodotto chiamato “Green nori sprinkle” (costo 2 euro abbondanti), solo che analizzando il nome scientifico indicato sulla confezione (ulva pertusa), ho capito che l’alga utilizzata era la lattuga di mare, che non appartiene a quella serie di alghe utilizzate per fare i nori (tutte alghe di genere porphyra). “Buono a sapersi” si dice: il sapore è quello solito delle alghe secche. Non sono molto esperta di alghe, quindi le metto nella lista delle cose da scoprire per i prossimi post di RuMi Mama.

 ****L’ELENCO DEGLI INGREDIENTI PER PREPARARE I TAKOYAKI *****

***RICETTA PASTELLA PER 16 TAKOYAKI***
1 uovo
340 ml di brodo dashi
100 grammi di farina 00
1 cucchiaino di salsa di soia
2-3 pizzichi di sale

***RIPIENO DEI TAKOYAKI***
Polpo bollito e tagliato in piccoli pezzi (non ne serve molto, due tentacoli ciccioni possono bastare)
Erba cipollina (meglio ancora il gambo di cipollotto tagliato a striscioline)
Beni Shoga (zenzero marinato): lo trovate a julienne, meglio se lo tritate un po’.

***DECORAZIONE TAKOYAKI***
Salsa okonomiyaki
Maionese giapponese
Alga aonori
Katsuobushi (fiocchi di pesce secco)

*** E ORA IL VIDEO!!***

Ora che siete arrivati interi fin qui, avete una bella sorpresa, perché con il video di preparazione dei takoyaki inauguro anche il Canale di YouTube di RuMi Mama: vi invito a iscrivervi 🙂
Il mio video di preparazione dei takoyaki è realizzato in time-lapse: non è un filmato ma il montaggio di fotografie scattate a intervalli regolari e ravvicinati. La preparazione in cottura è durata in tutto 20-25 minuti, il video è lungo poco più di un minuto. Qui è piccolino, ma sul canale è in alta definizione e bello grande.

Come vedete i takoyaki nell'angolo in basso a destra si cuocevano più lentamente. Nulla di irrimediabile :)

Il takoyaki in alto a destra sta roteando felice. I takoyaki nell’angolo in basso a destra si cuociono più lentamente. Nulla di irrimediabile, basta girare la padella sulla fiamma o comprare uno spargifiamma.

Sì, quella che vedete è la mia cucina, quelle mani sono le mie e chiaramente è stato fatto tutto in modalità “BUONA LA PRIMA” (quindi se andava male, non vedevate nulla) 😀
La prima cosa che ho fatto è stata posizionare la padella sulla fiamma bassa e piccola del fornello centrale e aspettare che si riscaldasse. Poi l’ho unta con olio di semi con l’aiuto di un tovagliolino. Ho unto tutto, sia le concavità sia i bordi. Ho riempito di pastella i buchi: è molto liquida e si cuoce lentamente. Senza fretta ho messo i pezzi di polpo nei buchi, spolverato con il beni shoga (non l’ho tritato, era meglio farlo) e l’erba cipollina, e infine riempito a filo con la pastella. A questo punto si attende che la pastella si cuocia un po’ e si dividono i riquadri con l’auto di due stuzzicadenti lunghi da spiedini. Si infila la punta sotto un wannabe-polpettino e lo si inclina per uniformare la cottura. Man mano che si girano il polpettini bisogna spingere la pastella esterna verso l’interno della sfera, aiutandosi con le punte degli stecchini: a guardarlo pare difficile, ma avviene tutto molto naturalmente, la pastella collabora! L’unico problema che ho riscontrato e che in parte avevo previsto è che la padellina è più fredda ai quattro angoli, quindi dopo un po’ l’ho dovuta spostare per far finire la cottura delle polpette più sfigate. Appena la cottura si avvia, i takoyaki diventano un po’ croccanti fuori e rimangono morbidi dentro: in questo modo è molto semplici farli roteare dentro le cavità, rincalzare la pastella in eccesso e dare loro la perfetta forma sferica che hanno alla fine della preparazione.

I takoyaki a cottura ultimata! Sono dorati e soffici.

I takoyaki a cottura ultimata! Sono dorati e croccanti fuori, soffici e bollenti dentro.

Vanno conditi e mangiati ancora caldi: sono pronti quando sono dorati su tutta la superficie. La cottura è ultimata quando se li punzecchiate con lo stuzzicadenti e sono ancora soffici, la crosticina esterna è sottile e compatta e l’interno, con un cuore succulento di pastella e polpo, è ancora morbido.

Gustateli con una birra fresca e… どうぞ、召し上がって下さい! Meshiagatte kudasai!

È arrivata la padella per il takoyaki

19 martedì Mag 2015

Posted by RuMi Mama in Chiacchiere, ricette, Street food

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giappone, osaka, padella takoyaki, rumi mama, takoyaki, takoyaki pan, youtube

Rumi Mama è risorto (viva RuMi Mama!), nonostante il periodo purtroppo molto, MOLTO complicato. C’è in corso un tasting di ravioli cinesi surgelati per suggerirvi quelli migliori (sulla pagina di Facebook ne ho già fotografato un marchio), ma nel frattempo sono stata punzecchiata per cimentarmi in una preparazione giapponese: il takoyaki.

Takoyaki

I takoyaki di solito vengono serviti con un topping di maionese giapponese, alghe secche e scaglie di pesce secco (quello rosa che vedete in questa foto)

Si tratta di un tipico cibo di strada giapponese di cui ho già parlato nel giugno 2014 in occasione del post sul Milano Matsuri (a proposito: ce ne sarà un’edizione anche quest’anno all’interno del Milano Manga Festival).

Il takoyaki è tipico di Osaka: sono delle polpettine (tante. Non vorrete mangiarne solo una!) di polpo e pastella cucinata in appositi stampi. Di recente ho passato serate intere a documentarmi non tanto sulla ricetta ma sulla tecnica di preparazione delle polpette. Se guardate anche solo un pezzo di questo video vedrete che serve una manina d’oro. Prevedo schizzi di pastella in ogni dove…

Finalmente oggi, nel primo pomeriggio, mi hanno consegnato il pacchetto contenente la padellina speciale per fare i takoyaki in casa, quindi nel weekend proverò a farli: SE TUTTO VA BENE AL PRIMO COLPO, riuscirò a documentare ricetta e sequenza preparatoria la prossima settimana! Comunque vi tengo aggiornati sulla pagina Facebook di RuMi Mama.

La scatola già fa venire l'acquolina in bocca!

La scatola già fa venire l’acquolina in bocca!

 

La padellina vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

La padellina vista da sopra. Ci sono 16 concavità per altrettante polpettine.

La padellina vista da sotto. Ha gli incastri per non scivolare dal fornello, ma avrò bisogno di uno spargifiamma

La padellina vista da sotto. Ha gli incastri per non scivolare dal fornello, ma avrò bisogno di uno spargifiamma

 

 

 

 

 

 

 

Ho ordinato su Amazon la padellina per fare i takoyaki, (trovate qui sotto un “discreto” link di affiliazione: se la volete comprare cliccando qui, vengo ricompensata con qualche spicciolo, ma se volete venire a casa mia a darmi una mano in cucina mi fa anche più piacere!!).

http://rcm-eu.amazon-adsystem.com/e/cm?t=ruma-21&o=29&p=8&l=as1&asins=B0098HKKL0&ref=tf_til&fc1=000000&IS2=1&lt1=_blank&m=amazon&lc1=0000FF&bc1=000000&bg1=FFFFFF&f=ifr

RUMI MAMA TORNA PRESTO, QUESTA VOLTA E’ VERO SUL SERIO 🙂

Onsen tamago: l’ovetto va alle terme

12 giovedì Giu 2014

Posted by RuMi Mama in Chiacchiere, Da cucinare, ricette

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Tag

cottura uovo, dashi, giappone, kuro tamago, mirin, onsen tamago, salsa di soia, terme giapponesi, uova

[cronaca di una scoperta curiosa e di un esperimento riuscito a metà]

Quando ho letto di questo modo giapponese di cucinare le uova, mi si è stampato un sorriso in faccia. È la classica “scoperta dell’acqua calda”, che a sentirla pare tanto ovvia ma alla fine non è mai passata per la testa.
Partiamo dal nome, che già spiega tutto: in Giappone gli onsen 温泉 sono le stazioni termali (l’arcipelago giapponese ha più di un centinaio di vulcani, le sorgenti di acqua calda naturale sono molto diffuse su tutto il territorio). Andare all’onsen è una tradizione tipica locale, un momento da vivere assieme, un po’ come il convivio (però son tutti nudi o con un asciugamanino a coprire le pudenda). Tuttavia non sono qui per spiegarvi il galateo alle terme giapponesi, ma per parlarvi della temperatura dell’acqua, che negli onsen sta attorno ai 65-68 gradi.

Kita Onsen, Nakagawa-machi, Prefettura di Tochigi. Immagine in licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/johngcramer

Kita Onsen, Nakagawa-machi, Prefettura di Tochigi. Immagine in licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/johngcramer

Bene: in quest’acqua calda, ma non bollente, i giapponesi, oltre a fare tranquille e rilassanti abluzioni, ci cucinano le uova di gallina (tamago 卵), tenendocele a mollo per circa mezz’ora, quaranta minuti.
Cosa succede a un uovo quando lo immergiamo nell’acqua calda? L’albume inizia a solidificare attorno ai 58 gradi, a 80 gradi è completamente rappreso. Il tuorlo, invece, si cuoce completamente a 70 gradi (esistono dei geek che sono fissati anche con la cottura dell’uovo e formulano strane funzioni basate su volume, temperatura, tempo, roba da far girare la testa, provate a guardar qui).
La cottura nell’acqua dell’onsen cuoce il tuorlo, mantenendone però il colore vivido e una consistenza cremosa, mentre l’albume diventa biancastro ma rimane un po’ liquido. Il risultato non è paragonabile né a quello dell’uovo in camicia (albume troppo solido, tuorlo troppo liquido) né a quello dell’uovo alla coque (tutto troppo liquido).

Uova in cottura nell'onsen. Immagine in licenza CC, alcuni diritti riservati. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/eylc/

Uova in cottura nell’onsen. Immagine in licenza CC, alcuni diritti riservati. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/eylc

Gli "izakaya" sono le osterie giapponesi in cui, oltre a servire alcool, vengono portati in tavola tanti piccoli piatti pieni di assaggini. Tipo le tapas spagnole o i dim sum cinesi.

Gli “izakaya” sono le osterie giapponesi in cui, oltre a servire alcool, vengono portati in tavola tanti piccoli piatti pieni di assaggini. Tipo le tapas spagnole o i dim sum cinesi.

Questa storia dell’uovo onsen l’ho scoperta leggendo un libro di ricette giapponesi che ho acquistato di recente in Francia (l’immagine di copertina qui accanto). Per ottenere l’uovo onsen l’autrice consiglia di immergere un uovo a temperatura ambiente (non freddo di frigo, altrimenti rischia di spaccarsi) per 12 minuti in una pentola coperta con acqua portata a ebollizione e poi tolta dal fuoco. Non avendo la possibilità di fare gli esperimenti di Bressanini (il quale racconta la cottura dai 65 ai 69 gradi in questo articolo del 2007) mi sono affidata a questa tecnica, trovandone dei riscontri anche in altri siti e video.
Non essendo mai stata in un onsen, non ho la possibilità di fare un confronto diretto tra la cottura in acqua termale e quella casalinga, e per il riscontro visivo devo affidarmi al confronto con immagini scattate da altre persone che hanno un bagno termico (ossia uno strumento capace di mantenere costante la temperatura dell’acqua).

 RuMi Mama esperimenta in cucina

Come ho accennato a inizio articolo, l’esperimento è riuscito a metà perché credo di aver versato sull’uovo l’acqua troppo calda (nonostante avessi anche atteso che perdesse il bollore). Il risultato è stato che la parte esterna dell’albume si è attaccata alla parete interna del guscio, quindi in sostanza è rimasto poco albume biancastro liquido (presumo debba rimanere tutto o quasi e comunque presentarsi in forma compatta, non a pezzi come è successo a me…). Il tuorlo, invece era cotto giusto: color arancione vivo, consistenza solida ma cremosa e non stopposa, ancora umida in tutto il volume. Ho aperto l’uovo picchiettandolo a metà, come potete vedere in immagine.

Vedete che l'albume è rimasto umido? Poi sono riuscita a rovesciare la parte rimasta morbida nella ciotola assieme al tuorlo.

Se ingrandite la foto, vedrete che verso l’interno l’albume è rimasto umido. Doveva essere tutto così. Poi sono riuscita a rovesciare la parte rimasta morbida nella ciotola di portata.

Come va servito e mangiato un ovetto così? Avevo una mezza idea di mangiarlo con gli asparagi, poi ho optato per la preparazione tradizionale “alla giapponese”: ho messo in una ciotola 7-8 cucchiai di brodo dashi a temperatura ambiente (il dashi è il brodo di base della cucina giapponese e di alcuni intingoli), ci ho aggiunto un goccio di mirin (è un sake speciale per cucinare, meno alcoolico e più dolce) e un goccio di salsa di soia. ho mescolato questi ingredienti, ci ho versato dentro l’uovo, e poi ho guarnito con dell’erba cipollina (non avevo del verde di cipollotto, sarebbe più indicato, se tagliato finemente).

Il poco albume rimasto morbido e il tuorlo intero, bellissimo. Mannaggia all'albume...

Il poco albume rimasto morbido e il tuorlo intero, bellissimo. Mannaggia all’albume…

Ecco il tuorlo: è venuto meglio dell'albume. Cremoso, arancione, forse un filino troppo cotto... Tuttavia con la salsina di dashi, mirin e soia va giù che è una meraviglia, è SQUISITO!

Ecco il tuorlo spezzato col cucchiaio: è venuto meglio dell’albume. Cremoso, arancione, forse un filino troppo cotto… Tuttavia con la salsina di dashi, mirin e soia va tutto giù che è una meraviglia, è SQUISITO! Provatelo!

In conclusione se siete curiosi di provare e non avete in programma prossimamente una gita all’onsen giapponese, vi consiglio di non far bollire l’acqua o comunque di farla raffreddare un po’ (se avete un termometro secondo me a 80 gradi può andare. Nella pentola dovrebbe dissipare calore in fretta, ma sono misure molto poco scientifiche, dovrei fare più esperienza. Cosa che farò, ma nel frattempo ci tenevo anche a raccontarvi questo esperimento, sono sicura che l’idea di cuocere l’ovetto nelle acque termali ha incuriosito anche voi… pensate che i giapponesi cuociono le uova anche nelle acque termali sulfuree (nella località di Owakudani, una vallata vulcanica con soffioni sulfurei, regione del Kanto, quindi nella zona centrale dell’arcipelago) ottenendo così delle uova con il guscio nero: si chiamano kuro tamago (黒卵 uova nere) e sono sode 🙂 Questi in casa non li posso provare a fare, perché il vulcano non va da RuMi Mama: magari un giorno RuMi Mama andrà dal vulcano! 🙂

Se mai vi capitasse di mangiare un vero onsen tamago, cucinato in acqua termale o in acque sulfuree, ricordatevi di me e mandatemi un saluto con il vostro ovetto: sarete pubblicati ^___^

Un kuro tamago cotto nelle acque sulfuree. Praticamente è sodo. Immagine con licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/gunnsteinlye/

Un kuro tamago cotto nelle acque sulfuree. Praticamente è sodo. Immagine con licenza CC. Attribuzione http://www.flickr.com/photos/gunnsteinlye

I baozi e lo strano mattarello cinese

02 lunedì Giu 2014

Posted by RuMi Mama in Chiacchiere, Da cucinare, ricette, Street food

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baozi, cina, expo 2015, istituto confucio, jiaozi, showcooking, Street food, Via Paolo Sarpi

Un baozi addentato famelicamente ma trattenuto con somma eleganza dalla sottoscritta con le bacchette

Un baozi addentato famelicamente ma trattenuto con “somma eleganza” dalla sottoscritta con le bacchette

Oggi si parla di bāozi 包子, da pronunciarsi rigorosamente con la lunga sulla A e con una Z un po’ mozza in chiusura. Si tratta di una preparazione tipica cinese, un cibo casalingo e di strada. L’occasione per imparare a prepararli è nata grazie a un nuovo evento organizzato da Presso in via Paolo Sarpi dall’Istituto Confucio dell’Università Statale di Milano in occasione della rassegna “Aperitivi per EXPO” e intitolato “Oltre i fornelli, la strada”. L’incontro ha avuto un’introduzione accademica tenuta dall’architetto Francesco Collotti dell’Università di Firenze. Il professore ha illustrato come in Cina il confine tra lo spazio pubblico (la strada, i parchi, le piazzi) e quello privato (le case, le corti interne) spesso non sia molto marcato. Questo aspetto si ripercuote anche nel tradizionale “street food” che a volte può essere acquistato e gustato proprio negli spazi antistanti le abitazioni private. A una serie di fotografie suggestive e succulente, è seguito un divertente e interessante showcooking su come si preparano i veri baozi cinesi, i panini ripieni cotti al vapore che possono essere mangiati per strada ma anche preparati in casa. Protagoniste dello showcooking sono state Marta Valentini (direttore esecutivo del Confucio) e Zhang Yang, che è insegnante volontaria sempre presso l’istituto e in particolare la MIA insegnante di cinese in questo semestre: è stato simpatico vederla alle prese con mattarello, impasti, farina e ripieni con un delizioso grembiule da cucina! Lei ha imparato a cucinare i baozi da sua mamma, un po’ come io ho imparato a far le tagliatelle e il ragù dalla mia 🙂

 sinistra Marta Valentini, direttore esecutivo dell'Istituto Confucio, a destra Zhang Yang, insegnante dell'Istituto che si è prestata a spiegare la preparazione dei baozi cinesi

A sinistra Marta Valentini, direttore esecutivo dell’Istituto Confucio. A destra Zhang Yang, insegnante dell’Istituto che si è prestata a spiegare la preparazione dei baozi cinesi.

I baozi sono dei panini ripieni cotti al vapore. Ne esistono due varianti: una con pasta lievitata (quello di cui parliamo qui), l’altra con pasta non lievitata. I ripieni sono vari, tradizionalmente ci si può trovare dentro carne di maiale, carne di maiale e cavolo, verdure oppure gamberi. Nulla ci impedisce di riempirli come vogliamo, quelli appena elencati sono i ripieni più comuni in Cina. Durante lo showcooking, oltre che la ricetta di famiglia di Zhang laoshi, sono emerse delle tecniche e degli attrezzi da cucina interessanti che derivano proprio dalla tradizione gastronomica locale e che, secondo me, hanno molto in comune con i gesti e gli utensili che possiamo trovare nelle case italiane. Prima di parlare della ricetta (che ritengo che sia solo la “punta dell’iceberg”) ci tengo a soffermarmi proprio su questi particolari.

L’impasto, come quello del pane
Partiamo con l’impasto lievitato: è a base di farina, acqua e lievito di birra secco. Deve essere lavorato molto, finché non diventa liscio ed elastico e poi lo si lascia riposare per due ore in un ambiente tiepido: la tecnica di preparazione è identica a quella del pane fatto in casa. Una volta ripreso in mano l’impasto e lavoratolo ancora un po’, bisogna formarlo (intendo proprio la formatura dell’impasto) come un lungo cilindro del diametro di 8-10 centimetri. Poi bisogna staccare i singoli pezzi da 4-5 centimetri di spessore, strozzando un po’ l’estremità del cilindro e strappandoli con un gesto molto secco della mano. Come nella realizzazione dei panini, è importante che il gesto sia secco per non rompere la maglia glutinica dell’impasto: si tratta proprio di gesti che chi panifica conosce bene e fa per ottenere sviluppi omogenei e di qualità.

Zhang laoshi sta per creare le singole palline di impasto. Notate che sta strozzando la giusta quantità per poi strapparla con un gesto secco.

Zhang laoshi sta per creare le singole palline di impasto. Notate che sta “strozzando” la giusta quantità per poi strapparla con un gesto secco.

Il mattarello stranissimo e i dischi volanti
Una volta ottenuti i singoli pezzi di impasto bisogna appiattirli a forma di disco: questo lavoro si avvia con le mani e poi lo si conclude con il mattarello cinese, che è un po’ diverso da quello nostro europeo per tirare la sfoglia di pasta. Quest’ultimo, infatti è un cilindro perfetto che mira a tirare la sfoglia sottile e dello stesso spessore in ogni punto. Il mattarello cinese, invece, è leggermente a forma di fuso, e verso le estremità si restringe un po’. Questo perché l’impasto del baozi non dovrà essere dello stesso spessore su tutta la sua superficie, ma un po’ più spesso al centro, in modo da assumere quindi la forma di un piccolo disco volante. Non ho avuto la presenza di spirito di domandare il motivo per cui l’impasto deve essere più spesso al centro, ma la spiegazione più sensata che sono stata in grado di darmi è che offre un rinforzo alla pasta e fa in modo che, una volta cotto tutto, il ripieno non collassi, sfondando l’involucro. Ho visto Zhang laoshi fare questa manovra con la disinvoltura e la velocità di una sfoglina emiliana: in pratica bisogna far rotolare il mattarello con la mano destra senza fargli fare il giro completo ma facendolo ondeggiare avanti e indietro per circa mezzo giro. Intanto con la mano sinistra si fa ruotare il disco di pasta per appiattirlo sul bordo e non al centro.

Osservate con attenzione l'impasto in primo piano sulla sinistra, vedete che non è interamente piatto ma al centro è più spesso? Così deve essere. Zhang laoshi maneggia il mattarello e fa girare l'impasto per stenderlo e assottigliare i bordi.

Osservate con attenzione l’impasto in primo piano sulla sinistra, vedete che non è interamente piatto ma al centro è più spesso? Così deve essere. Zhang laoshi, intanto, maneggia il mattarello e fa girare l’impasto per stenderlo e assottigliare i bordi.

Il panino coi merletti
Sulle chiusure degli impasti, soprattutto quando si tratta di fare preparazioni ripiene, c’è sempre molto da dire perché sono fondamentali: non solo devono “contenere” il ripieno ma anche non devono essere troppo spesse o irregolari, altrimenti la cottura non sarà uniforme. Dopo aver posizionato la giusta quantità di ripieno al centro del disco volante si procede con la chiusura “merlettata” che si fa tenendo il panino nella mano sinistra e accompagnando con le dita i lembi_ si usa il pollice della sinistra e pollice e indice della destra,e  al contempo si fa ruotare tutto sul palmo della mano. Come si vede dalla fotografia qui sotto non è obbligatorio che la chiusura sia sigillata.

I baozi sulla destra sono fatti da Zhang laoshi, mentre quelli più sfigatini a sinistra sono un tentativo poco riuscito degli avventori. Guardate dietro il mattarello cinese  com'è fatto.

I baozi sulla destra sono fatti da Zhang laoshi, mentre quei tre più sfigatini a sinistra sono un tentativo poco riuscito di tre coraggiosi che hanno voluto provare 😀 Guardate dietro il mattarello cinese com’è fatto!

Un'istantanea di Zhang laoshi che inizia a chiudere un baozi

Un’istantanea di Zhang laoshi che inizia a chiudere un baozi.

La ricetta di Zhang Yang

Zhang Yang sorride soddisfatta dopo aver concluso lo showcooking

Zhang Yang sorride soddisfatta dopo aver concluso lo showcooking

L’impasto
250 grammi di farina da impasti (Manitoba direi che va bene).
2,5 grammi di lievito di birra secco (non di più, altrimenti dopo la pasta prende il gusto del lievito, e invece NON si deve sentire).
150-200 ml di acqua tiepida (la quantità è variabile perché dipende molto da quanta ne assorbe la farina e se ne chiama parecchia. L’impasto deve risultare sodo, non troppo duro e non appiccicoso).

 

Il ripieno di carne di maiale
500 grammi di carne di maiale macinata
1 cucchiaino di cipolla tritata
1 cucchiaino di zenzero fresco sbucciato e tritato finemente a mano
1 cucchiaino di sale
2 cucchiai di salsa di soia
1 bicchiere di acqua in cui sono state messe poche bacche di pepe di Sichuan per rilasciare sapore (poi però la filtrate, eh, non buttate dentro al ripieno le bacche)
30 millilitri di olio di semi
10 millitri di olio di sesamo (ha un sapore molto forte, non esagerate)
mezzo cucchiaino di brodo granulare di pollo mescolato con della polvere “cinque spezie” (è una miscela che si trova negli alimentari etnici, è molto usata nella cucina cinese ed è composta da cannella, chiodi di garofano, anice stellato, pepe di Sichuan, semi di finocchio: se avete questi ingredienti, pestateli e ottenete lo stesso risultato)

Il riposo e la cottura
Dopo aver preparato i baozi come spiegato sopra, bisogna lasciarli riposare per una ventina di minuti, in modo che l’impasto riprenda la lievitazione. Poi bisogna cuocerli in una vaporiera per 20 minuti, avendo cura di proteggere il fondo del piano di appoggio con uno strofinaccio bagnato o una foglia di cavolo cinese, in modo che non si attacchi l’impasto.

Come vanno serviti e mangiati i baozi
I baozi vanno mangiati caldi e serviti con salsa di soia mescolata con aceto di riso (per questo motivo l’impasto non è molto salato). Mangiateli prendendoli in mano oppure tenendoli con le bacchette.

Allo showcooking i baozi ci sono stati serviti con aceto e salsa di soia. Accompagnati da fagioli edamame e della sempre ottima birra Tsing-Tao

Allo showcooking i baozi ci sono stati serviti con aceto e salsa di soia. Accompagnati da fagioli edamame e della sempre ottima birra Tsing-Tao

In conclusione: prima di preparare i baozi vi consiglio di mangiarli: se vi recate in un ristorante cinese provate a chiederli oppure cercate tra le scritte in cinese il loro nome: i caratteri sono questi  包子 e sono semplici da ricordare. Non confondeteli con i jiaozi 餃子 (i ravioli cinesi) che sono simili, ma più piccoli, raviolosi e cotti al vapore, alla griglia o addirittura fritti. Poi, dopo averli assaggiati, potete anche provare a farli in casa, magari con un ripieno alternativo, vegetariano, oppure di pesce, di carne di pollo… cercando di mantenerlo comunque saporito. E come al solito, buon appetito, viva la cuCINA!

Kongxincai: verdura, tu sei senza cuore!

06 martedì Mag 2014

Posted by RuMi Mama in Da cucinare, Ortaggi, ricette

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cina, ipomea aquatica, Kong xin cai, kongxincai, ortaggi, ricetta, verdure senza cuore

Un mazzo di verdure senza cuore, 2,50 euro. Non economiche, qui in Italia. Le ho trovate in busta preconfezionata e il paese di produzione è la Thailandia.

Un mazzo di verdure senza cuore, 2,50 euro. Non economiche, qui in Italia. Le ho trovate fresche in busta preconfezionata e il paese di produzione è la Thailandia.

Tra le verdure più consumate in Asia (Cina e Sud Est asiatico) sono stata attratta dalle “verdure senza cuore” segnalatemi da Giulia, una ragazza di Roma che studia cinese con me. È incredibile accorgersi di quante cose possano passare sotto i nostri occhi senza vederle, perlomeno finché qualcuno non ce le fa notare. Da quel momento in poi, ve lo assicuro, escono dalle fottute pareti.
In particolare queste verdurine non solo sono servite in moltissimi ristoranti cinesi, ma sono anche vendute fresche nel reparto ortaggi degli alimentari etnici: basta aprire gli occhi, attivare l’hashtag mentale #kongxincai, e i misteri della cucina orientale, dei suoi “strani” ingredienti, si rivelano ai nostri occhi nella loro alimentare semplicità.

Partiamo dal nome: “verdura senza cuore” è la traduzione letterale di 空心菜, kōngxīncài (“kōng” è un aggettivo/verbo e significa vuoto/svuotare, “xīn” è il cuore, “cài” significa verdura). Le foglie di questo ortaggio hanno un fusto cavo, un po’ come quello degli spinaci. Parlo di spinaci non a caso, perché gli americani chiamano queste verdure “water spinach” ossia “spinacio d’acqua” (c’è anche chi lo chiama “swamp cabbage”, confondendolo però con altre cose). Per amor di completezza filologica, segnalo che  in cinese il nome esatto è 蕹菜, wèngcài, mentre per i giapponesi è 朝顔菜, asagaona. 

Da un interessante e dettagliato documento pubblicato dal Departement of Environment and Primary Industries dello stato australiano di Victoria* scopriamo che il nome ufficiale della pianta è Ipomea aquatica e fa parte della famiglia delle Convolvulaceae: se girate per prati o vivai, probabilmente conoscerete delle specie di ipomea utilizzate come piante ornamentali, perché hanno un grazioso fiore a forma di campanella. La specie aquatica è tipica delle zone tropicali, ha bisogno di caldo, cresce in acqua tutto l’anno ed è commestibile. Nonostante il nome inglese “water spinach”, la verdurina senza cuore dal punto di vista classificativo non è tanto imparentata con gli spinaci nostrani ma con la patata dolce (stessa famiglia delle Convolvulaceae). A seconda della varietà, le foglie possono essere più o meno allungate, comunque l’aspetto è meglio spiegarlo con una foto.

Guardate che meraviglia di verdura sto per cucinare: io ho scelto di strappare le foglie dal gambo e cucinarle separatamente, ma i tempi di cottura sono rapidi.

Guardate che meraviglia di verdura sto per cucinare: io ho scelto di strappare le foglie dal gambo e cucinarle separatamente, i tempi di cottura sono rapidi.

Il sapore è dolce, forte, e non ha nulla a che vedere con quello delle coste (non è aspro). Vi consiglio di provarle almeno una volta perché capita di rado di trovare verdure di questo tipo dal sapore marcato e non amaro. Mentre la foglia cotta si ammorbidisce, la consistenza del gambo cotto non è fibrosa e soprattutto è… (scusate, mi tocca dire una parola che ultimamente mi dà parecchio fastidio a a causa dell’abuso che se ne fa in cucina e nei luoghi in cui si straparla di cibo) CROCCANTE. Ebbene sì: se mai vi troverete a un VERNISSAGGIO con catering orientale, potrete ben dire “Apprezzo la croccantezza di questa kōngxīncài”, badando però di pronunciare in modo perfetto i toni, altrimenti farete solo la figura dei parvenu.

Forza, ai fornelli!
Se invece ho solleticato la vostra curiosità, e la prossima volta che andrete in un alimentari etnico finalmente presterete attenzione alle buste di verdurine senza cuore e deciderete di acquistarle, ecco come le ho preparate io: alla cantonese, ossia spadellate con un po’ d’olio e pochissima acqua, un pizzico di sale e un cicinin (ma poco eh!!) di brodo vegetale.

Per cucinare i gambi e le foglie bastano un filo d'olio e poca acqua (tanto ne cacciano fuori anche loro). Sale e brodo vegetale aggiungeranno un po' più di sapidità a una verdura che ha un gusto molto pronunciato e gradevole.

Per cucinare i gambi e le foglie bastano un filo d’olio e poca acqua (tanto ne cacciano fuori anche loro). Sale e brodo vegetale aggiungeranno un po’ più di sapidità a una verdura che ha un gusto molto pronunciato e gradevole.

Per curare le verdure ho avuto l’accortezza di separare le foglie dai gambi. Le foglie le ho tenute intere, i gambi li ho tagliati in tre, creando dei bastoncini della lunghezza di circa 10 centimetri. Ho pulito e cotto in padella separatamente foglie e gambi. Per le foglie ci vogliono tre minuti, giusto il tempo che si mollino. Per i gambi circa cinque minuti: devono rimanere sodi e croccanti, vi accorgerete subito quando sono pronti, perché appassiscono un po’ senza perdere turgore. Altrimenti potete prepararle con dell’aglio e del peperonicino 😀

Lasciatevi incuriosire, perché se amate le verdure, le kōngxīncài sono proprio una scoperta che vi darà soddisfazione: e se andate al ristorante cinese provate a chiederle o a cercare nel menu il loro nome! Spiate sempre i tavoli con persone cinesi, variate le vostre richieste, non fossilizzatevi con il solito pollo alle mandorle!

Foto trafugata al ristorante cinese quando ho mangiato per la prima volta le verdurine senza cuore. INSTAGRAMMAMI TUTTA!

Foto scattata fugacemente al ristorante cinese quando ho mangiato per la prima volta le verdurine senza cuore. INSTAGRAMMAMI TUTTA!

 

*(sta all’estremità Sud del continente, la capitale è Melbourne)

Pancetta brasata alla giapponese: buta no kakuni

08 martedì Ott 2013

Posted by RuMi Mama in ricette

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giappone, maiale, pancetta, porro, ricette, sugna, zenzero

La mia cucina è vittima della stagionalità, così come la mia alimentazione. È per questo motivo che RuMi Mama ha battuto la fiacca durante i mesi estivi: poca voglia di cucinare, di avvicinarmi ai fornelli e, soprattutto, di sperimentare in cucina. Ma ora ho davanti autunno, inverno e primavera, e un sacco di idee per questo blog a cui voglio tanto bene. RuMi Mama torna in pista con una ricettina giusta per riscaldare durante i primi freddi: pancetta brasata alla giapponese! E non è finita perché tra qualche giorno completerò il “ciclo della galanga”.

Premessa
Conosco il buta no kakuni, la pancetta brasata “alla giapponese”, grazie al mio amico Alessandro che ha iniziato a cucinarla e mi ha passato la ricetta decantandomene le lodi in chiave di amore per la sugna. E siccome sugna e gioia di vivere vanno spesso a braccetto, ho deciso di cucinare pure io questo inno internazionale al suino, ottenendo ottimi risultati. È una preparazione semplice ma lunga, perché la pancetta deve cuocere tre ore, quindi a fuoco lento. Non sono richiesti ingredienti particolarmente esotici o di difficile reperibilità e il sapore finale accontenterà anche i palati più esigenti: il buta no kakuni può essere gradito anche da chi guarda con diffidenza la cucina giapponese “perché il pesce crudo fa male/schifo”, oppure perché “chissà cosa ci mettono dentro”. Si tratta di una preparazione cotta tradizionale che può essere fatta in vari modi, io ho scelto quello più semplice, con ingredienti facili da trovare. E se siete tra coloro i quali vanno in giro predicando che “la cucina giapponese non è solo sushi e sashimi”, ora avrete l’occasione di stupire i vostri ospiti con un piatto giapponese saporito e decente preparato da voi: per favore smettetela di improvvisare vergognosi rotoli di sushi fatto in casa, con riso condito in modo infame, arrotolato come il giornale della domenica e tagliato con il coltello da pane.

Dove c’è porco c’è casa
Da studente (ancora principiante) di cinese, lingua che con il giapponese condivide parte dei caratteri, vi devo segnalare che il porcello (buta, in giapponese, tun in cinese) è rappresentato da questo simbolo 豚 e che le parole CASA, FAMIGLIA in cinese si ottengono mettendo il simbolo del maiale sotto quello del tetto (jia 家). Kakuni, invece è proprio la tipica preparazione brasata della pancetta di porco. Fatta questa introduzione filologica spicciola e approssimativa ma sufficientemente chiara, un’avvertenza. Come mi capita spesso di ricordare a costo di sembrare pedante, le cucine asiatiche sono molto più vicine a quella italiana di quanto possiamo immaginare. Se escludiamo gli ingredienti che giocoforza sono diversi, il modo di cucinare, la cura per le materie prime, le cotture, lo spirito conviviale con cui si consuma ogni pasto, l’esistenza di ricette regionali e di famiglia, sono elementi che avvicinano tantissimo queste due culture. Il buta no kakuni è una ricetta casalinga e, come molte altre preparazioni, può essere cucinato in tanti modi: qui ne trovate una che permette di ottenere un ottimo risultato senza dover cercare ingredienti strani.

Gli ingredienti!
Le dosi indicate sono per quattro persone che mangiano molto poco, oppure tre persone che probabilmente alla fine ne vorranno ancora ma non ce ne sarà più, oppure più ragionevolmente per due persone che non hanno intenzione di iniziare una dieta in giornata.

Gli ingedienti per la preparazione del buta no kakuni

Gli ingredienti per la preparazione del buta no kakuni

  • Un bel pezzettone da mezzo chilo di pancetta, preferibilmente senza cotica e osso. Se ci sono, vi consiglio di toglierli.
  • Un pezzo di porro
  • Una stellina di anice. Non l’anice in polvere. La stellina.
  • Salsa di soia, tre cucchiai.
  • Zucchero, due cucchiaini.
  • Sake due cucchiai. Ma se non avete il sake e non volete spendere inutilmente i vostri soldi per un vino che non berrete mai, sostituitelo con della vodka, secondo me vale uguale. Se volete mettere del vino, che sia bianco e secco. Ma meglio la vodka. Nella vita, proprio. Meglio la vodka…
  • Zenzero fresco, un pezzettino, una falange, senza buccia e tagliato a fettine. Non lo zenzero in polvere, ho detto quello fresco. Ormai lo vendono quasi ovunque.
  • Per il condimento servono riso, uova sode e/o verdurine.

Se escludiamo il sake (che si trova anche negli ipermercati, ma a prezzi vergognosi) sono tutti ingredienti comuni e di facile reperibilità, quindi non battete la fiacca e non accampate scuse.

La procedura di preparazione
Tagliate a blocchi di circa due-tre centimetri di spessore il pancettone e mettetelo a rosolare a fuoco vivace in una pentola dai bordi alti. La pentola dai bordi alti è fondamentale: che non vi salti in mente di cucinare il buta no kakuni in una padella. I brasati si fanno in pentole alte con il coperchio, come il ragù, perché il calore deve avvolgere, abbracciare con amore il cibo. Io uso la pentola di coccio, ma anche una in acciaio o antiaderente va bene, basta che ci sia un coperchio. Potreste aver voglia di far rosolare la pancetta con dell’olio: io ve lo sconsiglio perché tanto il calore farà sciogliere già un po’ del tanto grasso della pancetta. Rosolate finché i pezzi di carne non saranno cotti superficialmente su tutti i lati.

La pancetta dopo essere stata rosolata con lo zucchero.

La pancetta dopo essere stata rosolata con lo zucchero.

A questo punto buttate nella pentola lo zucchero e mescolate finché non si sarà un po’ caramellato col grasso che cola, e la superficie della pancetta sarà leggermente imbrunita. Questo avviene in circa uno-due minuti.

Abbassate la fiamma al minimo, siete su un fornello piccolo, vero?, e mettete nella pentola tutti gli ingredienti rimanenti: porro, zenzero, acqua, sake, soia.

Coprite e lasciate andare a fiamma bassa per tre ore, senza neanche mescolare troppo spesso. In queste tre ore l’acqua evaporerà, la pancetta rilascerà tutto il grasso, mentre i sapori di zenzero, porro e anice si mescoleranno creando un fondo di cottura da urlo.

Inizia la cottura: la pancetta si cuocerà in questo brodo che si insaporirà lentamente.

Inizia la cottura: la pancetta si cuocerà in questo brodo che si insaporirà lentamente.

Quello che vi consiglio caldamente di fare è di pulire a ogni ora il brodo dalle impurità con una schiumarola, proprio come si fa quando si cucina il brodo di carne. Questo renderà la salsa finale più buona e anche più limpida. Magari verso fine cottura, se vedere che la brodaglia è ancora liquida, socchiudete il coperchio per agevolare l’evaporazione della parte acquosa.
Trascorse le tre ore bisogna fare un’ultima cosa: togliere il grasso che in cottura si è sciolto. Se non si fa quest’ultimo passaggio il sughetto di accompagnamento è davvero troppo pesante da digerire. Per “estrarlo” si procede ancora una volta come con il brodo: togliete temporaneamente i pezzi di carne dalla pentola e scolateli bene (magari metteteli in un piatto, coperti, a temperatura ambiente). Mettete la pentola con il sughetto in frigo o sul balcone, visto che ora fa freddo. Nel giro di un’ora il grasso sarà affiorato e solidificato, e sarà facile da togliere con l’aiuto di una forchetta. Se necessario, mettete ancora un po’ sul fornello il sughetto per restringerlo e addensarlo.

Ed eccolo qui, il buta no kakuni servito caldo su riso in bianco con ovetto sodo. Non dimenticate di salare e pepare a vostro gradimento!

Ed eccolo qui, il buta no kakuni servito caldo su riso in bianco con ovetto sodo. Non dimenticate di salare e pepare a vostro gradimento! La pancetta si scioglierà in bocca.

Come servire il buta no kakuni
Io lo servo su del riso cucinato con la cuociriso, con un uovo sodo in parte e una spolverata di erba cipollina, o prezzemolo, o coriandolo. Basta che sia un’erbetta saporita. Altrimenti servitelo con accanto delle verdure al vapore 🙂 Versare poi sopra a riso e verdure la deliziosa salsina di cottura debitamente sgrassata.

Se cucinerete il buta no kakuni sarò felice di conoscere i risultati e le vostre considerazioni! 

Ricetta: il gelato al the verde

14 martedì Mag 2013

Posted by RuMi Mama in Dolci, ricette

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gelatiera, gelato, giappone, matcha, ricetta, the verde

Il gelato al matcha di RuMi Mama.

Il gelato al matcha di RuMi Mama

Oh, finalmente è arrivato il caldo, è ora di gelato!

Una delle cose che i genitori insegnano presto a noi bambini italiani è saper distinguere il gelato buono da quello cattivo. Se il gelato buono si ottiene trasformando e integrando le materie prime, che siano cioccolato, nocciole o frutta, il gelato cattivo, spesso propinato nei baretti, è quello fatto con LE POLVERINE al colore di fragola, banana, pistacchio (rispettivamente ROSA, GIALLO e VERDE SHOCKING) e insaporito con gusti chimici che ritroviamo solo nei deodoranti per ambienti, nelle Big Babol e nelle sigarette elettroniche.

Bene, oggi parliamo di gelato BUONO fatto in casa e fatto con una POLVERINA sana. L’idea mi è venuta perché a casa ho sempre una scorta di the matcha in polvere con cui faccio i biscottiny, quindi ho pensato di poterci fare anche il gelato al the verde, quello che di solito si ordina nei nostri ristoranti cino&giapponesi alla fine di un lauto pasto.

Il matcha è il the con cui i giapponesi fanno la cerimonia del the e si presenta sotto forma di polvere molto fine di colore verde intenso e brillante da mescolare nell’acqua.

Un po' di matcha. La polvere è impalpabile e color verde giada.

Un po’ di matcha. La polvere è impalpabile e color verde giada

Ha un sapore forte e rinfrescante, secondo me quasi balsamico, e viene spesso usato anche per dar un tocco in più, nel gusto e nel colore, a torte, salse, budini e biscotti. L’Internet è pieno di pagine che decantano le proprietà salvifiche del matcha: fa bene bevuto sia caldo sia freddo, perché è ricco di antiossidanti che contrastano i radicali liberi, di vitamine, sali e amminoacidi. Inoltre, quando lo beviamo, tranguigiamo proprio la polvere, perché non si fa un infuso, ma una sospensione. Io mi fermo qui perché in realtà non mi interessa molto spiegarvi quanto possa far bene il matcha (quello buono costa così tanto che passa presto la voglia di rifornirsene vita natural durante). Voglio invece spiegare una ricetta per fare il gelato al matcha, un dessert buono e MOLTO SALUTARE fatto con latte, panna e zucchero 😀 

Serve una gelatiera: io ne uso una di quelle basiche da pochi euro, con il cestello da mettere preventivamente a raffreddare in freezer, e non la gelatiera professionale che non solo costa un botto ma anche consuma elettricità e produce gelato per una squadra di calcio: viste le modiche quantità in ballo, va più che bene la gelatiera dei pezzenti. Compràtela: d’estate ci fate anche i sorbetti (qui va per la maggiore quello di melone frullato, zucchero sciolto in acqua e vodka)

Gli ingredienti che servono per tre dosi abbondanti (a occhio una decina di cucchiaiate)

  • 100 ml di panna liquida fresca (io in realtà ne ho pesati 100 grammi, fregandomene delle storie sul peso specifico).
  • 100 ml di latte
  • 40 gr di zucchero (ma se volete, potete rimanere anche più indietro e scendere a 30, il matcha è saporito  buono anche senza troppo zucchero)
  • 2 cucchiaini, anche abbondanti, di matcha
  • 1 tazza scarsa d’acqua
Gelato al matcha in preparazione

Gelato al matcha in preparazione

Come procedere
Scaldate, non fate bollire, l’acqua e scioglieteci dentro il macha e lo zucchero. Siccome il matcha tende a far grumi, aiutatevi con una frusta. Poi abbiate la pazienza di attendere che tutto si raffreddi.
Versate nella gelatiera latte, panna e il the raffreddato e lasciate andare la gelatiera per 20/25 minuti, fermando e rimescolando ogni cinque minuti. Il composto deve essere ben amalgamato: acqua e latte non devono affiorare. Poi schiaffate il cestello in freezer e dopo un paio d’ore il gelato al the verde è fatto, pronto da servire.

Il risultato sarà un gelato squisito e pannoso. La consistenza invece sarà difficilmente simile a quella del classico gelato al the verde che siamo abituati a mangiare nei locali, soprattutto perché dentro non c’è la carragenina, che è un addensante comunemente usato nei gelati confezionati per renderli più morbidi e cremosi.

Comunque tranquilli: nonostante sia così semplice far il gelato al the verde, negli etnici trovate le buste di polverina cattiva e preconfezionata anche per fare quello. Io ne ho una da un po’, prima o poi la proverò, più per curiosità che altro: guardate sulla confezione come si prepara (va bene solo per chi non ha una gelatiera) e gli ingredienti contenuti.

Un preparato in polvere per il gelato al the verde

Un preparato in polvere per il gelato al the verde

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