L’acqua, il riso e la cuociriso

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Mi scrive Andrea per chiedermi di spiegargli come si fa il riso “Con la risottiera che ho visto a casa tua” e già il mio corpo viene percorso da un brivido di orrore. Non mi trattengo e gli preciso che è una CUOCIRISO, non una risottiera, e il suo compito è quello di preparare il riso in bianco, punto e fine. Qui in Italia il riso in bianco, di solito, si prepara in un solo modo: bollito in abbondante acqua salata, poi scolato e servito come primo piatto leggero, in insalata o a volte anche accompagnato a uno spezzatino. In Asia lo si cucina senza sale per metterlo accanto a un piatto sugoso già saporito di per sé, per essere condito in un secondo tempo oppure per essere l’ingrediente di una preparazione specifica (gli esempi più conosciuti sono il riso alla cantonese, che NON si prepara come l’insalata di riso, e il riso per il sushi). Per quanto riguarda la cucina asiatica, dimenticatevi il concetto di “chicco di riso al dente” separato dagli altri chicchi. La cuociriso è un elettrodomestico tipico asiatico che si sta diffondendo anche da noi e che cucina il riso “all’orientale”, rendendolo una massa di chicchi distinti ma collosi. Lo stesso risultato lo si ottiene cucinandolo in pentola bassa con coperchio col cosiddetto metodo “dell’assorbimento dell’acqua”.

Acquistare la cuociriso

La mia prima cuociriso la acquistai in un negozio etnico di Milano. Ora le trovate anche su Amazon (dove ho comprato la mia seconda…) o addirittura da Mediaworld. Prendete pure i modelli di base a basso prezzo, soprattutto se è la prima volta che vi avvicinate allo strumento: non fatevi tentare da accessori, termostati strani e funzioni aggiuntive. Una cuociriso per 4 persone costa circa 20 euro, fatevi derubare per 30 euro, e la potete usare anche per porzioni da due persone. Più avanti potrete anche comprare cuociriso con coperchio a scatto, maniglia per il trasporto e così via… Nella confezione della cuociriso-base di solito trovate un cavo elettrico, un coperchio in metallo con un piccolo foro, un misurino (inutile), una paletta per servire (sostanzialmente inutile pure quella) e il contenitore in alluminio dentro cui viene cotto il riso. Fuori dalla pentola c’è una levetta che sta in due posizioni: “Cook” e “Warm”. Ossia “Cucina” e “Riscalda”. Un LED rosso indica che la pentola è accesa. Se guardate dentro alla pentola troverete sul fondo un bottone a molla. Sul fondo c’è anche, coperta, la resistenza.

Come si usa e come funziona: Elementi di Fisica I

Prima di tutto dovete sciacquare bene il riso con l’acqua, in modo che perda tutta la farina che lo riveste. Rovesciatelo nel contenitore di alluminio, versate l’acqua fredda (della quantità di acqua, ASPETTO IMPORTANTISSIMO, parlo dopo), inserite il contenitore nella pentola, chiudete il coperchio, attaccate la spina alla corrente e premete la leva, mettendola in posizione “Cook”. Così parte la cottura che terminerà da sola, senza nessun timer, facendo scattare la levetta in modalità “Warm” quando il riso sarà cotto. A questo punto il riso sarà tenuto caldo per qualche ora, senza che ne esca scotto. Durante la cottura NON BISOGNA ASSOLUTAMENTE SOLLEVARE IL COPERCHIO.

L'interno della cuociriso è molto semplice. Sto puntando il dito sulla molla. Sotto la parte circostante c'è la resistenza elettrica che scalda l'acqua.

L’interno della cuociriso è molto semplice. Sto puntando il dito sulla molla. Sotto la parte circostante c’è la resistenza elettrica che scalda l’acqua.

Il motivo è semplice: la cuociriso funziona a pressione. Quando l’acqua nel contenitore inizia a bollire e il coperchio è chiuso, il vapore esercita una pressione sulla molla interna che vedete nella foto qui accanto, spingendo il contenitore verso il basso. Man mano che l’acqua viene assorbita dal riso ed evapora passando dal foro del coperchio, la pressione sulla molla diminuisce, fino al punto in cui scatta la levetta che interrompe la cottura. Quindi non fatevi prendere dalla morbosa curiosità di vedere cosa succede dentro alla cuociriso (NON STA SUCCEDENDO NULLA DI PARTICOLARE, son cose di cui non parleranno mai a Voyager), dalla voglia di mescolare (ALLONTANATI, TU CON QUEL CUCCHIAIO!), o assaggiare il riso per controllare se è cotto (NON SI FA, GIÙ LE ZAMPE!). Il riso sarà cotto semplicemente perché voi avrete messo la quantità giusta di acqua.

Appunto: la giusta quantità d’acqua

La state sentendo la mia risata satanica? Il segreto per ottenere il riso cotto al punto giusto (che, vi ricordo, non è al dente ma MORBIDO, APPICCICOSO e NON IN PAPPA) è metterci dentro il giusto quantitativo di acqua fredda. Se è troppo poca tirerete fuori il riso crudo. Se è troppa otterrete il pappone per i maiali. Se farete qualche errore, consolatevi con la mia triste storia: la prima volta che ho usato la cuociriso ero in compagnia del mio amico Ugo. Non sapevamo bene come e cosa fare, ci siamo affidati alle istruzioni nella confezione e al misurino, e siamo finiti a buttare mezzo chilo di riso nello scarico del water. Una delle pagine più tristi della storia della mia vita in cucina.

La giusta quantità di acqua la si ottiene ricoprendo tutto il riso dentro al contenitore di alluminio PIÙ un paio di centimetri. Due centimetri li misurate inserendo la falange di un dito, appoggiando il palmo della mano, con qualsiasi cosa: imparerete anche a farlo ad occhio, basta che rimaniate su quell’ordine di grandezza, non di più, non di meno. Inoltre, lo ricordo per l’ennesima volta, non salate l’acqua come fareste con la pastasciutta (se non resistete, mettete tre quattro grani di sale grosso, ma secondo me è inutile).

Il riso e gli impieghi alternativi

Quale riso usare con la cuociriso? Mah, io son abbastanza conservativa nel darvi suggerimenti a riguardo: propendo per una scelta di tipo “filologico”. Con uno strumento orientale usate del riso orientale: quello per il sushi, il Basmati, il Jasmine, quello glutinoso per fare i dolcetti… Poi, oh, se vi piace mangiare il Carnaroli o il Vialone Nano stracotto siete liberi di cucinarlo in cuociriso. Siate avvisati che online trovate anche persone e ricette che vi consigliano di mettere dentro l’acqua di cottura burro, olio, verdure…qui si apre la voragine degli utilizzi alternativi di questo pentolotto elettrico. Poiché per certa gente non ha senso fare solo riso con una CUOCIRISO, troverete anche ricette per cucinare verdure, pane, dolci, carne, pasta. Cosa vi devo dire… intanto imparate a farci il riso, e se il resto lo sapete fare con i metodi tradizionali, meglio per voi. Cucinare un dolce al cioccolato con la cuociriso potrebbe essere una simpatica curiosità, ma di certo non imparerete a farlo qui, su RumiMama.

Pupetta o scherzetto?

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Come ha detto che si chiama? Lo stadio putrido?
Pupale. Lo stadio pupale.
Come le farfalle.
Sì, esatto. Questo è un bozzolo e dentro avvengono dei cambiamenti.

Mai. Mai dare da mangiare a creature misteriose dopo la mezzanotte. Magari cucinarle, ecco.

Mai. Mai dare da mangiare a creature misteriose dopo la mezzanotte. Meglio cucinarle. (Immagine da “Gremlins” 1984 – Warner Bros)

Molti giOvani della mia generazione avranno incontrato per la prima volta il termine “stadio pupale” durante questo dialogo tratto da “Gremlins”, fantastico film del 1984 diretto da Joe Dante, scritto da Chris Columbus e prodotto da Steven Spielberg (una trimurti che ha anticipato di un anno quella de “I Goonies”, in quel caso la regia era di Richard Donner). Fine del momento cinema.  

Se in tutti giorni dell’anno la parola PUPA può farvi venire in mente cose belle (trucchi e donnine carine) ad Halloween PUPA significa una sola cosa: INSETTO SCHIFOSO! Senza tediarci tanto con spiegazioni, quello pupale è uno dei quattro, il penultimo, stadi di sviluppo degli insetti: embrione, larva, pupa, insetto schifoso. Giusto per capirci: nelle farfalle quella che chiamiamo crisalide è la pupa.

Un mesetto fa mi aggiravo curiosa (e senza capire molto) dentro a un negozietto di alimentari coreani e cosa ho trovato? Una scatoletta di pupe dei bachi da seta, o BEONDEGI, in coreano.

A giudicare dall'immagine sulla confezione, le pupe sono ottime con insalata e pomodori.

A giudicare dall’immagine sulla confezione, le pupe sono ottime con insalata e pomodori.

Agitando la confezione si sente che le pupe sono conservate in un liquido.

Agitando la confezione si sente che le pupe sono conservate nel liquido, un po’ come il mais, sì.

 A quanto pare in Corea sono uno snack prelibato, uno street food. Ricche di proteine, le pupe di seta non vanno mangiate crude, ma cotte al vapore, bollite o fatte a caldarrosta come le castagne, siore e siori e infine poi magari condite (con salsa di soia e zucchero).

Acquistando la scatoletta di INSETTI MORTI ho chiesto al commesso alla cassa come avrei potuto mangiare queste “deliziose pupette”, ma credo che ne sapesse meno di me: mi ha risposto che potevo mangiarle così com’erano, invece online ho trovato una RICETTINA per marinarle con salsa di soia, salsa piccante, aglio e olio di sesamo e poi tostarle in forno.

Beh, cari, a me questa cosa suscita un po’ di ripugnanza: magari mi sto perdendo l’occasione di mangiare il cibo degli dei, ma questa scatoletta io non la apro. NO. IO.NON.LA.APRO. E se poi ne trovo dentro una col ciuffo bianco?

O LA APRO? LO FACCIO IN NOME DELLA SCIENZA? DELLO SPETTACOLO?

Allora, dunque,  non vi lascio con un punto di domanda miei cari nipotini vampiretti: vi lascio qui a rimirare il contenuto della scatoletta. Io intanto vado a cuocere le pupette in padella, così stasera, quando i bambini verranno a bussare alla mia porta per chiedere le caramelle… BWAHAHAHAHAHAHAHAHA (risata satanica ad libitum sfumando).

[SPOILER: Il post è finito più sotto ci sono le immagini delle pupe nella scatola:se non volete guardarle chiudete la pagina ORA!!!]

Ecco le pupe scolate. CHE CI FACCIAMO UNA CARBONARINA?

Ecco le pupe scolate. CHE CI FACCIAMO UNA CARBONARINA?

Eccole le pupe nel loro liquido. Sono proprio insettose e rivoltanti, ottime per Halloween!

Eccole le pupe nel loro liquido. Sono proprio insettose e rivoltanti, ottime per Halloween!

Pancetta brasata alla giapponese: buta no kakuni

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La mia cucina è vittima della stagionalità, così come la mia alimentazione. È per questo motivo che RuMi Mama ha battuto la fiacca durante i mesi estivi: poca voglia di cucinare, di avvicinarmi ai fornelli e, soprattutto, di sperimentare in cucina. Ma ora ho davanti autunno, inverno e primavera, e un sacco di idee per questo blog a cui voglio tanto bene. RuMi Mama torna in pista con una ricettina giusta per riscaldare durante i primi freddi: pancetta brasata alla giapponese! E non è finita perché tra qualche giorno completerò il “ciclo della galanga”.

Premessa
Conosco il buta no kakuni, la pancetta brasata “alla giapponese”, grazie al mio amico Alessandro che ha iniziato a cucinarla e mi ha passato la ricetta decantandomene le lodi in chiave di amore per la sugna. E siccome sugna e gioia di vivere vanno spesso a braccetto, ho deciso di cucinare pure io questo inno internazionale al suino, ottenendo ottimi risultati. È una preparazione semplice ma lunga, perché la pancetta deve cuocere tre ore, quindi a fuoco lento. Non sono richiesti ingredienti particolarmente esotici o di difficile reperibilità e il sapore finale accontenterà anche i palati più esigenti: il buta no kakuni può essere gradito anche da chi guarda con diffidenza la cucina giapponese “perché il pesce crudo fa male/schifo”, oppure perché “chissà cosa ci mettono dentro”. Si tratta di una preparazione cotta tradizionale che può essere fatta in vari modi, io ho scelto quello più semplice, con ingredienti facili da trovare. E se siete tra coloro i quali vanno in giro predicando che “la cucina giapponese non è solo sushi e sashimi”, ora avrete l’occasione di stupire i vostri ospiti con un piatto giapponese saporito e decente preparato da voi: per favore smettetela di improvvisare vergognosi rotoli di sushi fatto in casa, con riso condito in modo infame, arrotolato come il giornale della domenica e tagliato con il coltello da pane.

Dove c’è porco c’è casa
Da studente (ancora principiante) di cinese, lingua che con il giapponese condivide parte dei caratteri, vi devo segnalare che il porcello (buta, in giapponese, tun in cinese) è rappresentato da questo simbolo e che le parole CASA, FAMIGLIA in cinese si ottengono mettendo il simbolo del maiale sotto quello del tetto (jia 家). Kakuni, invece è proprio la tipica preparazione brasata della pancetta di porco. Fatta questa introduzione filologica spicciola e approssimativa ma sufficientemente chiara, un’avvertenza. Come mi capita spesso di ricordare a costo di sembrare pedante, le cucine asiatiche sono molto più vicine a quella italiana di quanto possiamo immaginare. Se escludiamo gli ingredienti che giocoforza sono diversi, il modo di cucinare, la cura per le materie prime, le cotture, lo spirito conviviale con cui si consuma ogni pasto, l’esistenza di ricette regionali e di famiglia, sono elementi che avvicinano tantissimo queste due culture. Il buta no kakuni è una ricetta casalinga e, come molte altre preparazioni, può essere cucinato in tanti modi: qui ne trovate una che permette di ottenere un ottimo risultato senza dover cercare ingredienti strani.

Gli ingredienti!
Le dosi indicate sono per quattro persone che mangiano molto poco, oppure tre persone che probabilmente alla fine ne vorranno ancora ma non ce ne sarà più, oppure più ragionevolmente per due persone che non hanno intenzione di iniziare una dieta in giornata.

Gli ingedienti per la preparazione del buta no kakuni

Gli ingredienti per la preparazione del buta no kakuni

  • Un bel pezzettone da mezzo chilo di pancetta, preferibilmente senza cotica e osso. Se ci sono, vi consiglio di toglierli.
  • Un pezzo di porro
  • Una stellina di anice. Non l’anice in polvere. La stellina.
  • Salsa di soia, tre cucchiai.
  • Zucchero, due cucchiaini.
  • Sake due cucchiai. Ma se non avete il sake e non volete spendere inutilmente i vostri soldi per un vino che non berrete mai, sostituitelo con della vodka, secondo me vale uguale. Se volete mettere del vino, che sia bianco e secco. Ma meglio la vodka. Nella vita, proprio. Meglio la vodka…
  • Zenzero fresco, un pezzettino, una falange, senza buccia e tagliato a fettine. Non lo zenzero in polvere, ho detto quello fresco. Ormai lo vendono quasi ovunque.
  • Per il condimento servono riso, uova sode e/o verdurine.

Se escludiamo il sake (che si trova anche negli ipermercati, ma a prezzi vergognosi) sono tutti ingredienti comuni e di facile reperibilità, quindi non battete la fiacca e non accampate scuse.

La procedura di preparazione
Tagliate a blocchi di circa due-tre centimetri di spessore il pancettone e mettetelo a rosolare a fuoco vivace in una pentola dai bordi alti. La pentola dai bordi alti è fondamentale: che non vi salti in mente di cucinare il buta no kakuni in una padella. I brasati si fanno in pentole alte con il coperchio, come il ragù, perché il calore deve avvolgere, abbracciare con amore il cibo. Io uso la pentola di coccio, ma anche una in acciaio o antiaderente va bene, basta che ci sia un coperchio. Potreste aver voglia di far rosolare la pancetta con dell’olio: io ve lo sconsiglio perché tanto il calore farà sciogliere già un po’ del tanto grasso della pancetta. Rosolate finché i pezzi di carne non saranno cotti superficialmente su tutti i lati.

La pancetta dopo essere stata rosolata con lo zucchero.

La pancetta dopo essere stata rosolata con lo zucchero.

A questo punto buttate nella pentola lo zucchero e mescolate finché non si sarà un po’ caramellato col grasso che cola, e la superficie della pancetta sarà leggermente imbrunita. Questo avviene in circa uno-due minuti.

Abbassate la fiamma al minimo, siete su un fornello piccolo, vero?, e mettete nella pentola tutti gli ingredienti rimanenti: porro, zenzero, acqua, sake, soia.

Coprite e lasciate andare a fiamma bassa per tre ore, senza neanche mescolare troppo spesso. In queste tre ore l’acqua evaporerà, la pancetta rilascerà tutto il grasso, mentre i sapori di zenzero, porro e anice si mescoleranno creando un fondo di cottura da urlo.

Inizia la cottura: la pancetta si cuocerà in questo brodo che si insaporirà lentamente.

Inizia la cottura: la pancetta si cuocerà in questo brodo che si insaporirà lentamente.

Quello che vi consiglio caldamente di fare è di pulire a ogni ora il brodo dalle impurità con una schiumarola, proprio come si fa quando si cucina il brodo di carne. Questo renderà la salsa finale più buona e anche più limpida. Magari verso fine cottura, se vedere che la brodaglia è ancora liquida, socchiudete il coperchio per agevolare l’evaporazione della parte acquosa.
Trascorse le tre ore bisogna fare un’ultima cosa: togliere il grasso che in cottura si è sciolto. Se non si fa quest’ultimo passaggio il sughetto di accompagnamento è davvero troppo pesante da digerire. Per “estrarlo” si procede ancora una volta come con il brodo: togliete temporaneamente i pezzi di carne dalla pentola e scolateli bene (magari metteteli in un piatto, coperti, a temperatura ambiente). Mettete la pentola con il sughetto in frigo o sul balcone, visto che ora fa freddo. Nel giro di un’ora il grasso sarà affiorato e solidificato, e sarà facile da togliere con l’aiuto di una forchetta. Se necessario, mettete ancora un po’ sul fornello il sughetto per restringerlo e addensarlo.

Ed eccolo qui, il buta no kakuni servito caldo su riso in bianco con ovetto sodo. Non dimenticate di salare e pepare a vostro gradimento!

Ed eccolo qui, il buta no kakuni servito caldo su riso in bianco con ovetto sodo. Non dimenticate di salare e pepare a vostro gradimento! La pancetta si scioglierà in bocca.

Come servire il buta no kakuni
Io lo servo su del riso cucinato con la cuociriso, con un uovo sodo in parte e una spolverata di erba cipollina, o prezzemolo, o coriandolo. Basta che sia un’erbetta saporita. Altrimenti servitelo con accanto delle verdure al vapore 🙂 Versare poi sopra a riso e verdure la deliziosa salsina di cottura debitamente sgrassata.

Se cucinerete il buta no kakuni sarò felice di conoscere i risultati e le vostre considerazioni! 

Ricetta: il gelato al the verde

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Il gelato al matcha di RuMi Mama.

Il gelato al matcha di RuMi Mama

Oh, finalmente è arrivato il caldo, è ora di gelato!

Una delle cose che i genitori insegnano presto a noi bambini italiani è saper distinguere il gelato buono da quello cattivo. Se il gelato buono si ottiene trasformando e integrando le materie prime, che siano cioccolato, nocciole o frutta, il gelato cattivo, spesso propinato nei baretti, è quello fatto con LE POLVERINE al colore di fragola, banana, pistacchio (rispettivamente ROSA, GIALLO e VERDE SHOCKING) e insaporito con gusti chimici che ritroviamo solo nei deodoranti per ambienti, nelle Big Babol e nelle sigarette elettroniche.

Bene, oggi parliamo di gelato BUONO fatto in casa e fatto con una POLVERINA sana. L’idea mi è venuta perché a casa ho sempre una scorta di the matcha in polvere con cui faccio i biscottiny, quindi ho pensato di poterci fare anche il gelato al the verde, quello che di solito si ordina nei nostri ristoranti cino&giapponesi alla fine di un lauto pasto.

Il matcha è il the con cui i giapponesi fanno la cerimonia del the e si presenta sotto forma di polvere molto fine di colore verde intenso e brillante da mescolare nell’acqua.

Un po' di matcha. La polvere è impalpabile e color verde giada.

Un po’ di matcha. La polvere è impalpabile e color verde giada

Ha un sapore forte e rinfrescante, secondo me quasi balsamico, e viene spesso usato anche per dar un tocco in più, nel gusto e nel colore, a torte, salse, budini e biscotti. L’Internet è pieno di pagine che decantano le proprietà salvifiche del matcha: fa bene bevuto sia caldo sia freddo, perché è ricco di antiossidanti che contrastano i radicali liberi, di vitamine, sali e amminoacidi. Inoltre, quando lo beviamo, tranguigiamo proprio la polvere, perché non si fa un infuso, ma una sospensione. Io mi fermo qui perché in realtà non mi interessa molto spiegarvi quanto possa far bene il matcha (quello buono costa così tanto che passa presto la voglia di rifornirsene vita natural durante). Voglio invece spiegare una ricetta per fare il gelato al matcha, un dessert buono e MOLTO SALUTARE fatto con latte, panna e zucchero 😀 

Serve una gelatiera: io ne uso una di quelle basiche da pochi euro, con il cestello da mettere preventivamente a raffreddare in freezer, e non la gelatiera professionale che non solo costa un botto ma anche consuma elettricità e produce gelato per una squadra di calcio: viste le modiche quantità in ballo, va più che bene la gelatiera dei pezzenti. Compràtela: d’estate ci fate anche i sorbetti (qui va per la maggiore quello di melone frullato, zucchero sciolto in acqua e vodka)

Gli ingredienti che servono per tre dosi abbondanti (a occhio una decina di cucchiaiate)

  • 100 ml di panna liquida fresca (io in realtà ne ho pesati 100 grammi, fregandomene delle storie sul peso specifico).
  • 100 ml di latte
  • 40 gr di zucchero (ma se volete, potete rimanere anche più indietro e scendere a 30, il matcha è saporito  buono anche senza troppo zucchero)
  • 2 cucchiaini, anche abbondanti, di matcha
  • 1 tazza scarsa d’acqua
Gelato al matcha in preparazione

Gelato al matcha in preparazione

Come procedere
Scaldate, non fate bollire, l’acqua e scioglieteci dentro il macha e lo zucchero. Siccome il matcha tende a far grumi, aiutatevi con una frusta. Poi abbiate la pazienza di attendere che tutto si raffreddi.
Versate nella gelatiera latte, panna e il the raffreddato e lasciate andare la gelatiera per 20/25 minuti, fermando e rimescolando ogni cinque minuti. Il composto deve essere ben amalgamato: acqua e latte non devono affiorare. Poi schiaffate il cestello in freezer e dopo un paio d’ore il gelato al the verde è fatto, pronto da servire.

Il risultato sarà un gelato squisito e pannoso. La consistenza invece sarà difficilmente simile a quella del classico gelato al the verde che siamo abituati a mangiare nei locali, soprattutto perché dentro non c’è la carragenina, che è un addensante comunemente usato nei gelati confezionati per renderli più morbidi e cremosi.

Comunque tranquilli: nonostante sia così semplice far il gelato al the verde, negli etnici trovate le buste di polverina cattiva e preconfezionata anche per fare quello. Io ne ho una da un po’, prima o poi la proverò, più per curiosità che altro: guardate sulla confezione come si prepara (va bene solo per chi non ha una gelatiera) e gli ingredienti contenuti.

Un preparato in polvere per il gelato al the verde

Un preparato in polvere per il gelato al the verde

Dal Giappone il brodo dashi liofilizzato per la zuppa di miso

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[in questo post NON vi spiego come si fa la zuppa di miso, né come si cucina da zero il brodo dashi: questi argomenti saranno oggetto di altri due post]

C’è un profumino tipico che si diffonde nell’aria e che annusi subito quando entri in un comune ristorante in Giappone, ed è quello del brodo dashi.
Il brodo dashi è un ingrediente fondamentale per la zuppa di miso e di tante altre preparazioni giapponesi. Cito la zuppa di miso perché qui da noi è la più nota, ma sostanzialmente il dashi sta alla cucina giapponese come il brodo alla cucina italiana: lo ritroviamo presente non solo nelle zuppe ma anche in altre preparazioni e salse.

Il dashi è un brodo a base di pesce secco e alghe. Quindi, prima nozione fondamentale, se portate al ristorante giapponese una persona vegetariana strettamente osservante pensando che potrà mangiare della zuppa di miso, potrebbe anche essere un gesto gentile farle notare che alla base di una zuppa apparentemente vegetariana con soia e tofu tremulo, ci son tracce di pesce. Dico solo “tracce” perché in realtà i fiocchi di pesce secco (in particolare di bonito, sostanzialmente una sarda, quindi un pesce della stessa famigliola dei tonni) sono messi in infusione per rilasciare sali e sapori e poi vengono rimossi. Proprio come accade con i nostri brodi di manzo, gallina, cappone, pesce e così via.
Preparare il brodo dashi in casa alle nostre euro-latitudini è possibile (è anche più veloce da fare del nostro brodo di carne) ma bisogna fare qualche tentativo per calibrare bene i sapori: prossimamente vi illustrerò come ottenere il dashi di prima e seconda qualità con gli ingredienti classici che si reperiscono senza difficoltà nei supermercati etnici (in particolare i fiocchi di bonito e l’alga kombu). Tuttavia la conclusione a cui sono arrivata è che o si cucina dashi per consumarlo in abbondanza nel giro di due giorni, oppure c’è molto spreco. Del resto non ci vuole molto a capire che non si può fare il brodo in una o due porzioni, perché si tratta di una preparazione che richiede delle masse standard, non è che puoi dimezzare la ricetta (non è che si possa preparare mezzo litro di brodo di carne, o una sola porzione di ragù, al massimo cucini per un reggimento e poi metti in congelatore…). Poiché non siamo giapponesi, può anche essere che dopo aver preparato un litro di dashi e averlo assaggiato, non sappiamo più cosa farcene (mah, in realtà lo si potrebbe usare come qualsiasi altro brodo per insaporire i piatti, anche perché il gusto di pesce non si sente troppo).

hon_dashi La via più semplice per farsi del dashi in modica quantità e senza sprechi, è quella di usare IL DASHI GRANULARE LIOFILIZZATO, che è tale e quale al nostro brodo granulare in barattolo. Qui vi parlo dell’Hon-dashi della Ajinomoto: nei negozi lo trovate, è sempre presente, solo che la busta è piccola, quindi se non lo vedete è meglio chiedere (un po’ come accade nei nostri supermercati per il lievito di birra e lo zafferano: non sai mai dove si trovino di preciso).
Hon-dashi” è un marchio registrato dall’azienda giapponese Ajinomoto, il prefisso “hon” non indica ingredienti particolari: sta lì a scopo rafforzativo per significare “Il dashi, quello vero”. Ed è quello vero sul serio, perché con la giusta dose di acqua, si ottiene un dashi davvero fedele all’originale in pochissimi minuti. Il dosaggio corretto è tuttavia fondamentale, soprattutto in presenza di una confezione in cui non si capisce una CIPPA.

In pratica in ogni confezione ci sono otto bustine da 4 grammi di dashi liofilizzato  ciascuna. Una bustina insaporisce alla perfezione 600 ml di acqua, ossia il liquido che riempie quattro tradizionali ciotoline giapponesi per la zuppa di miso. Vi parrà assurdo che mi metta a specificare queste cose ma la confezione importata ha sempre il solito dannatissimo problema dell’etichetta appiccicata sulle istruzioni d’uso che sono in… TADAAAAH. GIAPPONESE. Fidatevi di queste dosi, sono quelle giuste scritte lì 🙂 Se volete fare solo due ciotoline di brodo, occorre mezza bustina in 300 ml di acqua. Le istruzioni in italiano recitano un generico “1 cucchiaino (4 gr.) serve per insaporire quattro piatti“. Cosa che nelle Terre delle Espressioni Generiche può anche essere corretta, ma mette un po’ di confusione persino una persona poco precisa come me.

Kimchi: dalla Corea allo spazio, passando per frighi speciali

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Marchio Korean Kimchi
Prodotto da è un mistero.
Prodotto in Taiwan
Nome sulla confezione Korean Kimchi
Claim in ideogrammi cinesi
Peso netto 369 grammi (circa 12 porzioni)
Importato da Rocam International (Olanda)
Pagato circa due euro

Il kimchi sta ai coreani come la pastasciutta agli italiani: è un piatto nazionale, una specialità alla base della loro alimentazione. Pensate che l’astronauta coreana Yi So-yeon si è portata le proprie razioni di kimchi nello spazio nel 2008, durante la missione Soyuz TMA-12 verso la Stazione Spaziale Internazionale (nota per i nerd: in quella missione, come turista, ha viaggiato anche una persona molto nota nel mondo dei videogiochi, ossia Lord British, il signor Richard Garriott).
Ma non divaghiamo… in cosa consiste il kimchi?
Si tratta di un gustoso (oddio, dipende dai gusti…) accompagnamento presente su tutte le tavole coreane a base di verdura fermentata. FER-MEN-TA-TA.

Un piatto di kimchi. L'immagine è di http://www.flickr.com/photos/koreanet/

Un piatto di kimchi. L’immagine è di Korea.NET

Non c’è un’unica ricetta di kimchi, ne esistono varie versioni regionali e casalinghe: il kimchi più tradizionale contiene cavolo cinese, aglio, zenzero, peperoncino, salsa di pesce, cipolla e cipollotto, sale. La preparazione prevede che gli ingredienti, mescolati tra loro, riposino in contenitori sigillati per qualche giorno e conservati in luogo fresco (storicamente veniva chiuso in vasi di terracotta che poi venivano messi sotto terra), per poi trasformarsi in un piatto fatto per accompagnare il riso bianco, o per insaporire le zuppe. Su YouTube trovate anche qualche signora coreana che vi spiega come preparare le verdure per il kimchi: non è neanche troppo complicato, però la salsa di pesce, assieme al sale, è un ingrediente fondamentale per avviare la fermentazione, e quella non si trova ancora facilmente nei nostri supermercati tradizionali: bisogna per forza andarla a comprare negli shop etnici (la salsa di pesce è fatta a sua volta con pesce fermentato, ed è molto utilizzata nella cucina del Sud Est asiatico per cucinare zuppe, pesce e anche carne).

In Corea il kimchi viene fatto in casa, ed è un elemento talmente fondamentale che nelle cucine coreane accanto al normale frigorifero c’è anche uno speciale frigorifero “a cassetti” per il kimchi. Ne esistono di tantissime marche, per esempio, tra quelle note qui in Occidente, di Samsung e LG. Perché non usare un frigorifero normale per conservare il kimchi? Perché per la fermentazione serve una temperatura costante e uniforme attorno al contenitore. Inoltre vorrei aggiungere una considerazione personale: avete mai fatto il lievito madre? Pur con tutta la cura e le attenzioni per isolarlo dal resto del cibo, impesta del suo odore qualsiasi altra cosa presente nel frigorifero, quindi mi par anche sensato che, se una famiglia coreana produce kimchi da mangiar tutto l’anno, lo conservi in un elettrodomestico a parte, in contenitori sigillati.

Due stilosi ed enormi frigoriferi prodotti da LG, uno normale e uno per il kimchi che vedete a partire dal secondo 00:36.

Dopo questo breve excursus introduttivo, passiamo alla prova sul campo di questo kimchi in barattolo che ho acquistato in un negozio di via Paolo Sarpi. Questo, il primo che ho preso, è stato prodotto a Taiwan. In un altro negozio, nel frattempo, ne ho trovato un altro in scatola e prodotto in Korea.
Una volta aperto, si sente un sacco l’odore del peperoncino mescolato a quello delle verdure, e che non è poi così piacevole. Dentro ci sono foglie di cavolo tagliate sottili, ma anche grandi pezzi di gambo molto ammorbiditi dalla fementazione, e qualche striscia di carota. Tutto naviga nel peperoncino e nel liquido cacciato dalle verdure. Io l’ho mangiato assieme a del riso scondito cucinato al vapore e come prima cosa credo di aver sbagliato le dosi, e di essermene servita troppo. Anche perché il barattolo indica 12 porzioni, mentre io ehm… ho finito la confezione in due pasti.

Non vi traduco tutto, scordatevelo

Non vi traduco tutto, scordatevelo

Tutto sommato non è  malvagio (sarà che a me il cavolo piace e il piccante non mi dà particolare fastidio), ma confesso di non trovarlo così succulento da essere stata folgorata sulla gastronomicissima via verso le Indie.  Di certo non aiuta il fatto che questo sia un prodotto preconfezionato e non fatto da una nonnina coreana,

tuttavia lo consiglio solo a chi ha voglia di emozioni forti, ama la verdura, ed è un po’ incuriosito dalla cucina coreana.

Ora, scusatemi, vado a farmi un the caldo, che devo fare il ruttino.

Giudizio di RumiMama: Mah, sì, non è cattivo eh. Solo che… Mmbah. Mmboh. Magari una volta che vado al ristorante coreano provo a mangiarne uno serio.

Valori nutrizionali

Valori nutrizionali

Ingredienti

Ingredienti

Occhio all’etichetta: alla scoperta non voluta dell’Eight Treasure Tea

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L’avevo già detto in uno dei miei primi post che non sopporto le etichette bianche in italiano che vengono applicate sulle confezioni di tutti i prodotti alimentari importati. Le odio per due ragioni: la prima è perché dovunque le appiccicheranno, copriranno qualche informazione essenziale come una ricetta, degli ingredienti oppure una di quelle diciture fondamentali come “se bagnato, si duplica”. La seconda è che magari devono anche star lì per legge, ma non ho idea di cosa debbano indicare obbligatoriamente, poiché di fatto sono troppo approssimative nel riportare il nome del prodotto, la sua natura e addirittura gli ingredienti contenuti. Insomma, capita molto spesso che diano fastidio e siano inutili.

Quindi una raccomandazione ovvia, ma necessaria: quando acquistate un prodotto etnico, non fidatevi ciecamente di quello che c’è scritto sull’etichetta bianca in italiano che è stata appiccicata sulla confezione, né per quanto riguarda la denominazione né per il contenuto. O sapete cosa state acquistando, altrimenti se l’intuito vi suggerisce che c’è qualcosa che non va, chiedete consiglio a un commesso. Altrimenti fate delle ricerche, che Internet può aiutare.

Nella confezione ci sono 12 bustine monodose per farsi una tazza di...

Nella confezione ci sono 12 bustine sigillate monodose per farsi una tazza di non so bene cosa…

etichetta

…  sicuro non di quello che c’è scritto sull’etichetta. Dietro una leggenda che secondo me ha a che fare con Ranma 1/2

Torniamo a bomba sull’argomento della giornata, una confezione da 12 bustine monodose per preparare un SEDICENTE THE DI CRISANTEMO che ha indicati quattro ingredienti: crisantemo, licio (jelly?), dattero e zucchero. Aprendo la bustina con dentro gli ingredienti per l’infusione, non servono né una laurea in botanica né dei trascorsi da erborista per capire che quelli che vi sono contenuti e che vedete nella fotografia qui sotto sono OTTO ingredienti diversi e non quattro come indicato sulla confezione.

Ecco cosa si trova dentro la bustina. I numeretti si riferiscono alla descrizione :D

Ecco cosa c’è dentro la bustina. I numeretti si riferiscono alla descrizione che trovate sotto 😀

Ora, io sono sicura che nessuno mi voglia uccidere, però vorrei davvero sapere cosa cavolo ho acquistato pensando che fosse THE AL CRISANTEMO. Siccome per spasso personale ho iniziato da poche settimane un corso di cinese e i loro assurdi caratteri NON MI FANNO PAURA,  inizio a cercare sul dizionario on-line il nome del prodotto, scoprendo che ho acquistato del BA BAO CHA (badabum-cha-cha).

Si scrive 八宝茶, si legge BA BAO CHA e significa

八 (ba) EIGHT, IL NUMERO OTTO. (E già qui trovo conforto, visto che gli ingredienti riconosciuti sono OTTO).

宝 (bao)treasure, tesoro.

茶(cha) tea, te, the, comunque lo vogliate chiamare!

Quindi senza saperlo ho comprato un EIGHT TREASURE TEA, che scopro essere un diffusissimo infuso cinese che, solitamente, contiene, indovinate quanti? OTTO INGREDIENTI. Può capitare che sia anche a base di crisantemo (ma non solo, anche perché di crisantemo ce n’è solo uno…), ma gli otto ingredienti variano, anche se sostanzialmente sono scelti tra specifici semi, fiori secchi, scorze di frutta (a volte ci può essere pure del the ma non è obbligatorio…), tutti scelti sulla base delle proprietà indicate dalla Medicina Tradizionale Cinese. Ciascuno prepara il proprio Ba Bao Cha con gli ingredienti che preferisce e che equilibra a proprio piacimento. Tenete presente che i cinesi preparano gli infusi non solo per  apprezzarne il gusto, ma anche per le proprietà delle erbe contenute. In particolare il “the al crisantemo” è un infuso fatto con i fiori di crisantemo e basta (talvolta ci si trova anche lo zucchero e le bacche di Goji) e, oltre a esser piacevole da bere, secondo la Medicina Cinese Tradizionale serve anche per ripigliarsi dall’influenza, abbassare la febbre, curare problemi legati alla vista (la cataratta, per esempio).

Studiando la confezione e anche riconoscendo a vista alcune cose (come per esempio le bucce di arancia), ho tradotto gli ingredienti di questo Eight Treasure Tea, che si sono rivelati non mortali e con delle proprietà ben precise.

1 – 贡菊 Crisantemo
Se alle nostre latitudini il bellissimo crisantemo appare sempre e solo in occasione delle celebrazioni dei morti a inizio novembre, in Oriente non è così. In Giappone, per esempio, è il simbolo dell’imperatore e più in generale simboleggia gioia e vitalità.

2 – 枸杞子 Frutto di goji (secco)
Conosciuto in inglese con il nome di “wolfberry”, fa parte della famiglia delle solanacee come patate, melanzane e pomodori. Il nome scientifico è Lycium barbarum o Lycium chinense (da qui il LICIO sulla confezione), ma per questa assonanza non va confuso con il Lychee che ha come nome scientifico Litchi chinensis. Ora va di moda metterlo anche nelle creme per il viso (vedi Nivea…).

3 – 胖大海 Frutto di malva
Il frutto della malva è una noce che in acqua rilascia della mucillagine che ha funzioni emollienti e lenitive. E in effetti a contatto con l’acqua calda il frutto si apre e sprigiona una massa gelatinosa.

4 – 金银花 Fiori di caprifoglio
Sono ricchi di  acido salicilico, #sapevatelo!

5 – 莲芯 Lotus core
Il germoglietto verde che si trova dentro al semino del fiore di loto.

6 – 红枣 Dattero rosso
Per la medicina erboristica cinese è importante per lo Yang, la parte calda, luminosa dell’equilibrio tra Yin e Yang, rinforza lo stomaco e rilassa la mente.

7 – 陈皮 Buccia di arancia essiccata
Sprigiona profumo a contatto con l’acqua calda, grazie ai suoi olii essenziali.

8 – 冰糖 cristalli di zucchero
Lo zucchero che fa? Addolcisce, fa venire le carie e il culone grasso.

Il Ba Bao Cha in infusione

Il Ba Bao Cha in infusione

Per prepararlo l’ho tenuto in infusione dieci minuti in acqua calda bollente e poi me lo sono versato in tazza filtrandolo con un colino. Il sapore è molto piacevole, lo zucchero non è troppo invadente anche se la prossima volta che lo farò toglierò qualche cristallo perché non amo le bevande tropo zuccherate.

La morale è: gli infusi cinesi sono buoni, ma magari essere meglio informati su quel che c’è dentro è meglio.

Meduse dalla zona FAO 61

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Pescata giusto al largo di Fukushima.

Pescata giusto al largo di Fukushima

Marchio: Ykof

Prodotto da: Ykof

Prodotto in: Cina

Nome sulla confezione: Meduse in salamoia

Peso netto: 230 grammi

Importato da: DingFeng ImportExport

Pagato: 2,00 €

Le meduse sono come la Rumi nelle giornate no: urticanti [Grazie, eh… N.d.Rumi]. Ripiene di ingiustificate nequizie nei confronti di chi le avvicina per ammirarle, hanno lasciato un segno indelebile nell’infanzia di chi vi scrive. Era una torrida estate riminese del 1982 e, mentre Paolo Rossi si faceva beffe del tacco di Socrates, mia sorella uscì piangendo come una fontana dall’acqua. Lei, che non piangeva mai e non ha mai più pianto in tutta la vita, tutta sport e spirito marziale. Le si era infilata una medusa nella parte posteriore del ginocchio, lasciandole un tatuaggio che neanche le truzze di Jersey Shore. E’ quindi con una certa soddisfazione che ci vendichiamo della specie tutta pappandoci una bella medusetta in salamoia, più specificatamente una Rhopilema Esculentum. Tramite un inglese abbastanza approssimativo la confezione ci informa che le Rhopileme sono ottime per depurare il fegato, ma vengono pescate nella zona FAO 61 del Pacifico, zona molto vasta che bagna la costa Est dell’arcipelago giapponese giusto di fronte a Fukushima, e vanno immerse in acqua fresca per una sessantina di minuti prima di essere consumate.
All’interno della confezione ci sono ulteriori piccole buste contenenti salsa di soia, dado granulare, olio piccante e le meduse stesse. L’aspetto di queste ultime è simile a quello dei nervetti, sebbene la consistenza sia decisamente più croccante. Dopo averle rinfrescate in una bacinella d’acqua le abbiamo scolate per bene e condite con le bustine apposite, aggiungendo due carotine bollite e un po’ di limone. Il risultato è un antipasto sorprendentemente sfizioso dove bisogna avere l’accortezza di non esagerare con il dado fornito, onde evitare di ritrovarsi con un piatto troppo salato. Insomma meduse, non vi temiamo più.

Vendettah!

Vendettah!

[per le foto e l’articolo ringrazio Davide Giulivi, ossia Quedex. L’ha scritto lui, come si può leggere in testa al post]

Snack al tofu secco: ho sete!

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Snack al tofu seccoMarchio è tutto in cinese, qui non capire molto bene
Prodotto da Chaoan County Zhen Xiang Industry co. Ltd
Prodotto in Cina
Nome sulla confezione Preparazione tofu secco
Claim in cinese
Peso netto 80 grammi
Importato da D&F srl Milano
Pagato ho perso lo scontrino comunque costava circa un euro.

Una delle mie specialità nei negozi etnici è spiare le persone e vedere cosa mettono nel cestino della spesa. Poi aspetto che si allontanino dallo scaffale e analizzo il prodotto. Pedinando un ragazzetto cinese ho acquistato questo snack al tofu secco.

Il tofu è quel formaggio a base di soia, flaccido e praticamente insapore  che scorrazza nella cucina asiatica: ho un post in canna sull’argomento “tofu” non tanto per chi vuole abbracciare la dieta vegana (è molto nutriente soprattutto dal punto di vista proteico), ma gastronomico, anche perché lo troviamo in vendita in svariate forme e non è facile capire… quale tofu pigliare e soprattutto cosa farsene. Al momento basti sapere che, nei vari processi produttivi e di lavorazione, il tofu può anche essere essiccato, venduto a strisce sottili per poi essere fatto rinvenire per usarlo principalmente in zuppe o fritti (yum).
Quello che trovate immortalato in questa pagina non è il tofu secco da usare in cucina (e ci ho messo un po’ a capirlo), ma è uno snack cinese a base di tofu secco della Zhen Xiang, un’azienda del Chaoan, regione della provincia del Guangdong, nella costa sud-est della Cina. A quanto mi è dato capire dal sito Web ufficiale, l’azienda, è specializzata in snack essiccati sia di carne sia di tofu che, a vista, si assomigliano tutti. Inoltre sulla confezione vantano la certificazione ISO 9001 per la gestione globale della qualità (ma non si tratta di una certificazione strettamente alimentare).

Snack al tofu secco

A ben guardare la composizione, non si tratta neanche di strisce di tofu essiccato, ma di farina di soia lavorata. In pratica questo snack sta al tofu quanto le Pringles alle patate.

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Gli snack al tofu secco sono molto diffusi in Cina e spesso sono insaporiti con spezie. Questo in particolare va mangiato solo se avete a portata di mano una bottiglia da due litri di acqua, cocacola, birra… oh, qualsiasi cosa per dissetarvi perché è sapidissimo, più delle patatine, più dei salatini, meno di un cucchiaino di sale grosso in bocca. Il suo gusto è un incrocio tra delle patatine gusto BBQ e i Fonzies, mentre la consistenza è abbastanza “straniera” per i palati occidentali: non è per nulla croccante, nonostante l’apparente panatura esterna. Sotto i denti è uno snack morbido ma non troppo gommoso. L’impatto non è spiacevole perché la “chips” si sfalda velocemente.

Il sapore, c’è da dire, non ricorda neanche lontanamente il “non sapore” del tofu. Al primo morso, quando il bocconcino si sfalda, prevale un gusto dolciastro. Poi segue la mazzata piccante e salata che ti obbliga a scolarti tre bicchieri di qualsiasi cosa liquida che si trovi nei paraggi, pur di ripristinare l’equilibrio osmotico.

Eccoli. Salatissimi, neanche cattivi, ma impossibili da mangiare in quantità industriali.

Eccoli. Salatissimi, neanche cattivi, ma impossibili da mangiare in quantità industriali.

Giudizio di RumiMama: oh, beh. Pensavo peggio. Pensavo di dovermi far fuori una confezione da 80 grammi di suola da scarpe. Invece no: sti snack al tofu secco sono  buoni e morbidi. L’unico problema è che sono così speziati e salati da impedirti di mangiarli uno dietro l’altro. Questo non ci farà rimpiangere che dentro la confezione ce ne siano “solo” 80 grammi.

Il pippone sul wasabi, quello vero

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Apriamo il discorso sul wasabi, uno dei condimenti più chiacchierati della cucina giapponese, con una grande rivelazione: quella piramidina pastosa e verde che di solito viene servita accanto al sashimi e da mescolare nella salsa di soia è un succedaneo che lo ricorda nel gusto, ma non è wasabi vero. E prima di gridare indignati al GOMBLODDO, schifando i ristoranti giapponesi che avete frequentato, anche quello “migliore di tutti” che conoscete solo voi e che suggerite a chiunque (e che ovviamente “non costa molto, e si mangia tanto…” e se qualcuno osa dire “C’E’ UN WOK ALL CAN YOU EAT BUONISSIMO” viene bandito immediatamente da questo blog, la porta è quella, sciò!), leggete quanto vi sto per raccontare.

Coltivazione di wasabi

Coltivazione di Wasabi: vedete forse delle piramidine pastose? No. Il wasabi è una PIANTA. Foto di Andrew McLucas [tokyogoat]


Il wasabi, wasabia japonica per gli amanti della nomenclatura ufficiale, è una pianta che viene coltivata in Giappone. Nell’ultimo decennio se ne sono diffuse coltivazioni in Nuova Zelanda e Australia, in Vietnam, in Cina nella regione dello Yunnan, e a Taiwan. Si tratta di una pianta acquatica molto delicata che, per crescere, necessita di condizioni climatiche specifiche e acqua corrente pura. Al di fuori delle piantagioni in terra e acqua, la si può vedere anche crescere selvatica lungo i corsi d’acqua delle montagne giapponesi (posti dove notoriamente noi italiani andiamo a passeggiare ogni domenica…).

Radici di wasabi al mercato

Radice di wasabi al mercato: i prezzi al pezzo sono in yen, togliete due zeri e all’incirca avrete il valore in euro: non è economico. Foto di hfordsa

Tutta la pianta del wasabi è commestibile: la parte che dovrebbe essere usata come condimento per il sashimi e nella preparazione di alcuni nigiri e norimaki (rispettivamente le polpettine e i rotolini di sushi con l’alga) è la sua radice fresca dal caratteristico colore verde, grattugiata partendo dalla parte più vicina alle foglie. Il problema è che cotanta freschezza e il particolare gusto che solo pochi fortunati alle nostre latitudini hanno sentito, non si mantengono per molto tempo: le radici si conservano al massimo un mese e il prodotto grattugiato perde sapore a contatto con l’ossigeno nel giro di venti minuti.

Grattugia per wasabi

La tipica grattugia per il wasabi consiste in una base in legno ricoperta da una pelle di squalo. Foto di Renés S.

In Giappone il wasabi fresco non è servito ovunque. Lo si trova solo in alcuni sushi bar e ristoranti, dove viene grattugiato con appositi strumenti (il più indicato, delicato ed esclusivo è una pelle di squalo posata su un quadretto di legno. Esistono poi altri strumenti in acciaio o plastica…).
Della già ridotta produzione di wasabi (per dare una misura, nel 2009 il Giappone ne ha scodellato circa 800 tonnellate, nello stesso anno l’Italia ha prodotto 5,7 milioni di tonnellate di pomodori*) , solo una parte della radice viene essiccata per la produzione di polvere, e in questo processo l’aroma viene quasi completamente perso.
Quello che mangiamo il 99% delle volte al giapponese e che chiamiamo wasabi, il mucchietto verde fluorescente dalla consistenza pastosa e un po’ ruvida, è di solito una mistura fatta con dei preparati in polvere mescolati con acqua e che FORSE contengono del wasabi in polvere, colorante verde, talvolta senape in polvere e TANTA polvere di… RAFANO.

Quindi, arriviamo al dunque: il caratteristico gusto del wasabi che conosciamo a queste latitudini è dato dal rafano.

I tubetti di wasabi in pasta che troviamo nei negozi a volte sono composti da una parte di wasabi fresco, una parte in polvere, e il resto sempre rafano e altri ingredienti a seconda della marca. Hanno una data di scadenza non molto estesa nel tempo e una volta aperti devono essere conservati in frigo e consumati abbastanza in fretta. Il problema è che il wasabi fresco, se c’è, molto probabilmente è rappresentato dalle parti meno nobili delle radici e viene messo solo per dare un po’ di consistenza, perché il gusto ormai se ne è andato. Il sapore che sentiamo, quello famoso che dà la botta al naso, è dato dal solito e già citato rafano.
Il rafano, o cren (in inglese “horseradish”, nome della specie Armoracia Rusticana), fa parte della stessa famiglia vegetale della wasabia japonica e la sua coltivazione è molto più diffusa. Il suo gusto è più aspro di quello del wasabi, ed è per questo che i vari preparati in polvere e in pasta sono spesso mescolati con altri ingredienti per raggiungere un gusto simile a quello del wasabi che però, a quanto leggo è più “vegetale”.
QUINDI? COSA CE NE VIENE? TUTTO STO PIPPONE PER INSINUARE IL DUBBIO CHE SIAMO VITTIME DI UNA COSPIRAZIONE ORIENTALE CHE CI SPACCIA IL RAFANO PER WASABI?
No, certo che no. Sono i giapponesi per primi a condire il cibo con “il wasabi al rafano”, anche se magari sono più al corrente di noi della vera natura del prodotto e del motivo per cui, alla fine, il wasabi fresco non viene servito in qualsiasi sushi bar o ristorante. L’importante è saperlo, e per questo basta semplicemente controllare le etichette dei prodotti che acquistiamo.
Per esempio guardate qui: questo è il wasabi in tubetto della S&B, un’azienda giapponese molto famosa e specializzata in wasabi e altre salse: il prodotto lo troviamo nei supermarket etnici e anche in molti ipermercati.

Come potete vedere non viene assolutamente fatto mistero del fatto che il primo ingrediente in lista è il rafano al 31,7%, mentre il wasabi è al 4,5%. Piuttosto non è chiaro se si tratti di wasabi fresco o in polvere, ma dalle considerazioni fatte sopra la differenza è davvero poca: il suo vero gusto ormai è andato disperso. La stessa ditta, tra l’altro, dichiara sul proprio sito di produrre per il mercato giapponese una versione del wasabi in pasta priva di coloranti. Esiste dello stessa marca una versione con maggior quantità di wasabi, ma il rafano non manca mai, neppure quando si compra il prodotto in polvere. E il gusto che sentite, è il suo.

*fonti Portal Site of Official Statistics of Japan e Informatore Agrario http://www.informatoreagrario.it/ita/Riviste/infoagri/10ia07/campagna%20pomodoro.pdf